Dalla Intervista sul
comunismo difficile a Umberto
Terracini, che Arturo Gismondi curò nel 1978, riprendo le pagine,
importanti, sulla “svolta” dell'I.C. e del Pci nel 1929-30,
sull'aberrazione del “socialfascismo”, sul dissenso dello stesso
Terracini che gli procurò tante “fraterne persecuzioni” (S.L.L.)
Umberto Terracini negli anni 30 del Novecento |
Che quelle posizioni (il
dissenso di Terracini sulla “svolta” dell'Internazionale
Comunista tra il 1928, l'anno del VI congresso in cui cominciò a
delinearsi, e il 1929, l'anno del X Plenum dell'Esecutivo che ne
fissò i caratteri. n.d.r.) fossero giuste, è stato poi
dimostrato, in tempo non lungo, proprio dalle decisioni del VII
congresso dell’Internazionale, che rovesciavano quelle del VI, e
quindi contemporaneamente travolgevano le posizioni prese dal Partito
comunista al momento della svolta.
D’altra parte oggi,
disciolte tutte le nubi di carattere polemico o il tentativo di
rivendicare posizioni allora sostenute, mi pare che non ci sia più
discussione possibile su questi vari punti, e cioè: che la crisi del
’29-30 non era l’ultima e fatale crisi del capitalismo; che in
Italia non era in corso e neanche avviato o preannunciato un processo
di radicalizza-zione delle masse contro il regime fascista; che la
socialdemocrazia non soltanto non era un equivalente al fascismo, ma
ben presto sarebbe stata considerata anche dall’Internazionale
comunista come un’alleata possibile e desiderabile in ogni azione
che si proponesse di elevare un argine contro 1 avanzata crescente
della reazione violenta. E infine, stiamo ancora vi-Ì vendo una fase
intermedia fra la dittatura fascista e un regime che riceva la sua
impronta principale dalle masse lavoratrici. Io, per l’appunto,
sostenevo allora che vi sarebbe stato un periodo intermedio fra la
dittatura fascista e la dittatura del proletariato. La stiamo ancora
vivendo, questa fase!
D. Tu ritenesti allora
particolarmente pericolosa l’equiparazione, teorizzata dal VI
congresso dell’Internazionale e fatta propria dal Partito
comunista, tra fascismo e socialdemocrazia.
R. È esatto. Io ritenni
grave, fra le posizioni assunte dal VI congresso dell’Internazionale,
soprattutto l’equiparazione del fascismo e della socialdemocrazia,
giudicati entrambi nemici giurati, e ugualmente pericolosi, della
classe operaia. E infatti, le conseguenze di queste concezioni sono
state gravissime: un processo di rottura fra i partiti comunisti,
socialdemocratici e socialisti europei; divisioni e lacerazioni
all’interno del movimento operaio. Tutto ciò aiutò non poco,
negli anni successivi, il successo del fascismo e del nazismo in
tanta parte d’Europa. In realtà avvenne che nella foga della
polemica l’equiparazione, già aberrante, tra fascismo e
socialdemocrazia, fu superata nella pratica, e i socialdemocratici
finirono per essere presentati come i peggiori nemici della classe
operaia, contro i quali andavano portati i colpi più duri.
Le conseguenze più
drammatiche, e anzi tragiche della guerra fratricida, si ebbero come
si sa in Germania. La lotta aspra fra socialdemocratici e comunisti,
fra i due più influenti partiti della classe operaia, condotta fino
alla vigilia e perfino oltre la vittoria del nazismo, aprì la strada
alla conquista del potere da parte di Hitler, decretando la fine
della repubblica di Weimar e l’inizio di un periodo tragico nella
storia d’Europa. È un’eclisse di civiltà che parve seppellire
per sempre - fra le altre - ogni conquista del movimento operaio,
comunista o socialista che fosse.
D. La genesi della «
svolta » si fa risalire al VI congresso dell’Internazionale. Ma la
polemica sul social-fascismo i comunisti italiani in qualche modo —
a parte i toni, o le definizioni — l’avevano anticipata. Lo
stesso Gramsci, nota Amendola, ha sempre nutrito una forte animosità
contro il Psi. Perciò quando il VI congresso giunse a identificare
fascismo e socialdemocrazia, dice sempre Amendola, trovò un terreno
fertile nel Partito comunista.
R. La posizione di
Gramsci nei confronti del Partito socialista fu certamente di severa
critica, di polemica e di dura condanna. E ciò fin da prima di
Livorno quando i socialisti, pur divisi tra riformisti e
massimalisti, ritrovavano l’unità per combattere contro il
movimento dei consigli di fabbrica e contro l’«Ordine Nuovo».
Dopo Livorno la lotta
contro il Partito socialista fu poi necessaria da parte nostra per
distinguerci, per identificarci di fronte ai lavoratori, ai quali il
Partito socialista ci presentava come avventuristi della rivoluzione
e intellettualoidi presuntuosi. E fu certo una lotta dura, non priva
di aspetti ingiuriosi, ingiusti.
Ma tutto ciò non ha
nulla a che fare col social-fascismo del VI congresso e della
«svolta». Noi facemmo colpa al Partito socialista di non aver
saputo guidare il proletariato italiano, sull’onda rivoluzionaria
del biennio rosso, alla lotta per il potere, usurandone invece la
combattività in vacue esercitazioni demagogiche, e coltivando
l’utopia della rivoluzione senza prepararla, cedendo infine alla
violenza terroristica del fascismo. E ritrovammo conferma delle
nostre critiche nella crisi aventiniana, quando il Partito
socialista, rifiutando di mobilitare assieme a noi le masse, si
accodò ai partiti borghesi nella loro tattica di inerte attesa di
una mediazione della monarchia. Tutti questi erano motivi di
polemica, e di polemica aspra. Ma sfido chiunque a citare di quei
tempi una frase, o un brano, che anche lontanamente anticipasse o
echeggiasse la tarda bestemmia del socialfa-scismo. Soltanto dopo la
« svolta » potè avvenire che Amendola, per esempio, parlando al
congresso di Colonia, affermasse che « la socialdemocrazia per
adempiere ai nuovi bisogni della borghesia si trasforma, adotta la
politica fascista, diventa socialfascismo » e che in questa nuova
veste è « più pericolosa del fascismo ».
1 commento:
E' questa la maledizione divina dopo la cacciata (ammesso che...): scordare le esperienza passate di modo che si possa credere nuovo quel vecchio che avanza e che sol ieri i nostri padri hanno maledetto. "Che tutto cambi perchè niente cambi" è l'inciampo che fa dolorosamente cadere in baratri da cui sarà difficile, come è sempre stato, risalire.
Com'è (oggi) vecchio quel nuovo che avanza.
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