«Un titolo troppo
razionale per una materia che fa appello a istinti irrazionali»:
L'alternativa nomade, ecco come Bruce Chatwin voleva chiamare
il suo primo libro, una vasta esplorazione dei motivi
dell'irrequietezza umana. Tutta la sua vita era stata assorbita dal
tentativo di sviscerare razionalmente le cause di un impulso
irrazionale: l'impulso a vagare, alla dislocazione continua; un tema
che Chatwin sentiva naturalmente sulla propria pelle. Trascinato dal
demone di un ormai mitologico horreur du domicile, il
viaggiatore dall'eterna faccia di ragazzino arrivava in un posto e lo
trovava quasi sempre paradisiaco, che fosse un'isola greca, il
Vaucluse oppure Sydney; ma dopo meno di un mese, qualunque immaginato
Eden si tramutava irreparabilmente in un oceano di noia.
Le lettere dell'autore
delle Vie dei canti sono adesso pubblicate a cura della moglie
Elizabeth e del suo biografo Nicholas Shakespeare, mutando nella
traduzione italiana il titolo dell'edizione inglese (Under the
Sun) e adottando quello del libro mai più edito che doveva far
luce sulla natura dell'irrequietezza umana. L'alternativa nomade.
Lettere 1948-89 (traduzione di Mariagrazia Gini, Adelphi, «La
collana dei casi») ci catapulta in un turbinio di appuntamenti
lanciati da un capo all'altro del mondo, telegrammi incalzanti
(«porta scarpe deserto e almeno 250 sterline restituirò vado sahara
centrale bruce»), auto a noleggio a Istanbul e passaggi su
scalcinati furgoni afghani, treni, aerei, transatlantici, case in
affitto, stanze ingombre di libri e indumenti alla rinfusa, oggetti
d'arte da rivendere per sbarcare il lunario, torri medievali
riarredate con gusto ottomano da esuli, divenute ideali tane per
scrivere. Ma soprattutto ci mette di fronte all'immediatezza
catturata live di una voce inconfondibile.
Chatwin, per molti una
delle intelligenze più colte e brillanti della sua generazione, nei
libri che è riuscito a scrivere prima della sua morte prematura ha
rivelato davvero poco di sé. Questo materiale epistolare, già
sfruttato ampiamente da Nicholas Shakespeare nel suo settennale
lavoro sulla biografia dell'amico, dovrebbe rappresentare dunque una
concreta pezza d'appoggio per completare il profilo di quella
irrequietezza radicale a cui rimane ancora consegnata l'immagine che
lo stesso Chatwin volle elaborare per sé.
La prima missiva il
piccolo Bruce la scrive ai genitori a otto anni dalla sua scuola
nello Shropshire, l'ultima dal letto di morte in Francia proprio a
Nicholas Shakespeare. In mezzo, un inarrestabile flusso di
comunicazioni che seguiamo per partizioni cronologiche essenziali:
quando un problema agli occhi lo costringe, ventiseienne, ad
abbandonare la sua carriera di esperto d'arte di Sotheby's per
scoprire i vasti orizzonti e le luci dell'Africa, scrive: «non
voglio continuare a stare appollaiato su un podio fingendo orgasmi
tutte le volte che aggiudico un lotto». E, ancora: «Cambiare è
l'unica cosa per cui vale la pena di vivere. Mai passare la vita
seduti a una scrivania. Provoca ulcere e mal di cuore». La tensione
al continuo cambiamento di sé stessi, all'imprevedibilità che il
viaggio allo stesso tempo suscita e impone, condurrà Chatwin alla
scrittura.
Riesce a scrivere
ovunque, tranne nel luogo dove eventualmente potrebbe appendere il
cappello, ovvero dove si senta «residente». L'abbandono della
carriera di esperto d'arte è un momento chiave, anche sul piano del
riconoscimento del conflitto con la propria sessualità. Poi la
collaborazione con il «Sunday Times» agli inizi degli anni
settanta, e nel 1977 un esordio (In Patagonia) che cambierà
per sempre il modo di scrivere il viaggio e del viaggio; negli ultimi
anni, infine, il progressivo avvicinarsi a un'idea tutta personale di
fiction, che secondo Tom Maschler (suo direttore editoriale
alla Jonathan Cape) avrebbe permesso a Bruce, se fosse vissuto, di
surclassare senza sforzo tutti gli altri autori della sua scuderia (e
si parla di Rushdie, McEwan, Amis e Barnes).
Ma è d'obbligo liberarsi
da false aspettative, come quella che queste lettere possano dirci
chi era veramente Chatwin, comunicarci una sua sostanza ultima; e
anche da credenze illusorie ma date per scontate e infine sterili.
Chatwin inventava, arricchiva la realtà? Certo, da narratore, ma
sempre propenso a raccontare una verità e mezza piuttosto che una
mezza verità, come nota Shakespeare. Le sue lettere piuttosto che
darcene un ritratto definitivo ci suggeriscono la forma che volta a
volta intese imprimere al suo desiderio. La direzione conta allora
sempre più del punto d'arrivo. Ecco anche perché non sentiamo
pudore nell'accostarci a questa vita. In tutta la sua effervescenza
di contatti e incontri, paradossalmente a emergere è la solitudine
di un uomo - come vuole la vulgata che lui per primo si preoccupò di
diffondere - quasi sempre impegnato a stupire e a conquistare gli
altri con la freschezza del suo discorso, unito a una cultura che
spaziava con identica sicurezza dai manufatti maori all'arte azteca
ai fossili di gliptodonte del Sudamerica, ma che preferiva partire e
viaggiare da solo. Il ritratto epistolare che emerge dall'Alternativa
nomade è quello di un uomo smanioso, di sensazionale sex appeal
e comunicativa malgrado un fondo scostante e inquieto («era
magnifico e lo sapeva», dirà Jasper Conran, uno dei suoi amanti),
che manteneva i contatti con i più svariati personaggi tramite
cartoline ironiche e affettuose inviate dai quattro angoli del
pianeta.
«Mia cara Kathie -
scrive all'epoca delle Vie dei canti - a quanto pare ci siamo
mancati di parecchi continenti». Un personaggio proteiforme,
esuberante ma in ultima analisi inafferrabile, sul quale è raro che
due amici si esprimano nello stesso modo. Sempre però con l'occhio
volto a un fine: «trovare se stessi nel movimento» per raccontare,
quasi come se il viaggio contasse anche oltre sé stesso, e fosse una
via regia per attingere quel destino di narratore che Chatwin aveva
scoperto nei punti di svolta della propriavita. Destinataria
principale del suo istinto affabulatorio è la moglie Elizabeth, che
nelle note a piè di pagina svolge ora un controcanto a volte
puntiglioso in eccesso, ed è stata unpunto di riferimento
ineludibile per una vita trascorsa a liberarsi dalla schiavitù degli
oggetti («il nomade rinuncia») ma la cui libertà erainfondo
radicata nella certezza di una base a cui tornare, che fosse la casa
di Holwell Farm, la torre di Gregor von Rezzori in Toscana o l'isola
di Patmos. E sarà facile ritrovare in certe lettere i germi
dell'opera futura, come quella in cui si descrive un grottesco
matrimonio praghese che tornerà, trasfigurato in funerale,
nell'ultima opera pubblicata, Utz.
Del Chatwin che già
conoscevamo dai libri editi, e a cui sarà sempre doveroso ritornare,
c'è qui la capacità di evocare un personaggio in due righe che lo
inchiodano, così come di sfruttare stimoli e idee dei propri guru
alternativamente idolatrati e abbandonati, dando a esse la propria
impronta personale. Lo scambio costante con il collezionista Cary
Welch, con James Ivory a cui propone strampalate idee per film da
girare, con il gesuita Peter Levi si nutre di una parola vivace,
ricca di luci fortissime, nata dall'impeccabile digestione di
notevoli quantità di materiale intellettuale e di esperienze: con
l'occhio clinico per il dettaglio eccentrico e la tensione a un
orizzonte il più vasto possibile, sempre «sulla traccia di
qualcosa», ma cui non manchi una «ricca vena di fantasia». Ma cosa
regge questa euforia? Miranda Rothschild parlò di vuoto intendendolo
come un complimento nei confronti di Chatwin, «ricettivo,
permeabile, obiettivo», un «testimone della bellezza». Su questa
traccia si comprende anche il senso dell'esergo da Cendrars che apre
il libro d'esordio: «Il n'y a plus que la Patago-nie, la
Patagonie, / qui convienne à mon immense tristesse».
Al di là delle
contraddizioni inevitabili di cui ogni vita si sostanzia, non c'è
dubbio che Chatwin abbia saputo fare buon uso del suo narcisismo e
volgere in virtù anche i suoi istinti più prepotenti. In una delle
bellissime lettere, a un tempo rapide e minuziose, inviate a
Elizabeth dalla Patagonia nel‘75, si trova a mo' di chiusura una
immagine che si rivela sintesi mirabile, quasi simbolica nella sua
autoironia, di quel cambiamento continuo nel quale si rifondevano le
precedenti strade che aveva battuto la sua esistenza: «Il mio zaino
sta prendendo una patina favolosa».
Alias il manifesto, 20
ottobre 2013
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