Sabato 25 giugno 2005 "alias", magazine del "manifesto", dedicò quasi metà delle sue pagine ad un anniversario importante, ma trascurato da quasi tutti gli altri mezzi di comunicazione: i cento anni dell'IWW, Industrial Workers Of the World, il sindacato internazionalista e classista che con le sue organizzazioni e le sue lotte animò i primi decenni della scena sociale e politica degli USA.
Riprendo qui l'articolo che funge da cornice e contiene una credibile prospettiva attualizzante, quello dello storico del movimento operaio Bruno Cartosio. Lo dedico ai compagni e agli amici impegnati in un congresso della Cgil che a me pare molto importante, e non solo per la scelta del successore di Camusso. (S.L.L.)
Cent’anni fa, alle
dieci di mattina del 27 giugno 1905, il minatore William «Big Bill»
Haywood apriva il «Congresso continentale della classe operaia»
nella Brand’s Hall di Chicago: «Compagni lavoratori, apro i lavori
di questo congresso consapevole della responsabilità che cade su di
me e su ognuno dei delegati qui riuniti... Noi siamo qui per
confederare i lavoratori di questo paese in un movimento di classe
operaia il cui fine sarà l’emancipazione della classe operaia dai
vincoli schiavistici del capitalismo».
Undici giorni dopo, la
sera del 7 luglio, il congresso si chiudeva con i «tre entusiastici
evviva» degli oltre duecento delegati che ratificavano così, per
acclamazione, l’avvenuta nascita dell’Industrial Workers of the
World. Quei delegati rappresentavano più di quaranta organizzazioni
e circa 60.000 lavoratori, dai minatori delle Montagne rocciose ai
tessili della costa orientale, dai metalmeccanici di Chicago e dei
maggiori centri industriali ai birrai immigrati dall’Europa del
nord. Non era poco per un’organizzazione nascente. In quel momento,
la moderata American Federation of Labor - vecchia di vent’anni -
poteva vantare quasi un milione e mezzo di iscritti.
Nella seduta finale,
simbolicamente presieduta da Luella Twining, una delle poche donne
delegate, Haywood sottolineò - suscitando ilarità per il linguaggio
formale che adottava: quello del XV emendamento alla Costituzione,
che nel 1870 dava a ogni cittadino il diritto di voto - che l’Iww
«non riconosce né razza, né credo, né colori, né sesso, né
precedenti condizioni di servitù»
Subito dopo, con l'altro
registro linguisico, che gli era più congeniale, riportò tutti alla
concretezza del progetto comune, ricordando che l’obiettivo non era
di «migliorare la condizione unicamente dei lavoratori
specializzati», ma di «scendere nei canali di scolo per arrivare
alla massa dei lavoratori e per innalzarli a un livello decente di
vita».
«Non mi interessa un
fico secco - aggiunse - se gli specializzati si iscriveranno o no,
ora. Quando avremo portato nella nostra organizzazione quelli che non
sono organizzati e i lavoratori che non hanno qualifica, allora anche
gli specializzati dovranno fare ricorso [all’Iww] per difendere se
stessi» dagli attacchi padronali.
Più sotto riprenderò
questo filo del discorso, perché proprio quest’inclusività
organizzativa appare oggi uno dei tratti più rilevanti di
quell’esperienza. Ma prima bisogna fare il punto. La storiografia
recente ha di nuovo accantonato l’Iww, dopo la straordinaria
ripresa d’interesse degli anni Sessanta e Settanta. A partire dagli
anni Ottanta reaganiani, negli Stati Uniti si è tornati a parlare e
scrivere sempre meno di lavoratori e di storia operaia.
L’antisindacalismo
dominante nell’ideologia politica e intrinseco alle trasformazioni
epocali della società e dell’economia hanno messo la sordina anche
alla ricerca storica. La sindacalizzazione è crollata.
I tentativi delle
organizzazioni di rivitalizzare un movimento che nel settore privato
e nell’industria è sceso all’8 per cento di iscritti, hanno
recuperato dai magazzini della storia i labor councils
cittadini, cioè l’organizzazione su base territoriale; hanno
aperto le organizzazioni ai lavoratori di immigrazione recente; hanno
esteso agli altri movimenti sociali l’interlocuzione e la
possibilità di fare alleanze, soprattutto sul piano locale.
È come se si fosse
cercato di recuperare frammenti di storia: i labor councils
dalle organizzazioni territoriali dei Knights of Labor ottocenteschi,
dell’American Federation of Labor più antica e della stessa Iww;
l’accoglimento nei ranghi degli immigrati dall’Iww; il ruolo
politico-sociale del movimento sindacale dai Knights of Labor e dal
Congress of Industrial Organizations dei passati anni Trenta.
Tutto questo finora non è
bastato. Né basterà in futuro, se dal passato del movimento operaio
statunitense e internazionale non verranno riprese, e rimodellate
sulle nuove realtà, anche altre categorie, strategie, prospettive.
In particolare, ed è qui
che torna l’Iww, il senso dell'antagonismo sociale e l’inclusione
organizzativa di tutti lavoratori, occupati e no, precari e
immigrati.
Torniamo a Haywood;
anzitutto alla sua critica della elitaria gelosia di mestiere delle
trade unions: «Il lavoratore specializzato ha organizzato un
sindacato per sé, riconoscendo che nell’unione è la forza. E ha
innalzato un muro intorno a quell’unione, che impedisce ad altri di
entrare a farne parte... Ci sono sindacati in questo paese che
chiedono a chi si iscrive una tassa d’iscrizione che arriva a 500
dollari. Come i soffiatori di vetro, per essere chiari; ma quanto
tempo ci vorrebbe per uno che prende un dollaro, un dollaro e un
quarto al giorno e deve pensare alla famiglia per mettere da parte
abbastanza soldi per versare la quota d’ingresso in quel
sindacato?».
Si tratta di un
esclusivismo miope e senza futuro, perché l’evoluzione produttiva
ha trasformato le mansioni degli stessi specializzati, togliendo loro
potere sul terreno produttivo. Nella fabbrica d’oggi «non esistono
più specializzati. Nei macelli non ci sono più macellai; c’è
un’infilata di uomini la cui specializzazione sta solo nel fare la
loro piccola parte e basta. La macchina è l’apprendista di ieri e
l’operaio finito di oggi». E la ragione per cui «la macchina sta
rapidamente prendendo il vostro posto e presto vi avrà rimpiazzati»,
è che, infine, «non esiste in questo paese un capitalista
imprenditore o una corporation che, se fosse possibile, non farebbe
funzionare l’intera sua fabbrica con le sole macchine, liberandosi
di tutti gli esseri umani che ora sta impiegando».
Non esistevano dunque
alternative alla lotta di classe e all’unione di tutti i lavoratori
in una grande «organizzazione le cui porte siano aperte per far
entrare ogni uomo, donna e, se necessario, ragazzo che lavori per un
salario, sia con le braccia, sia con il cervello».
Tutti, con parole
analoghe, espressero lo stesso concetto in quel congresso. Del resto,
il preambolo alla Costituzione dell’Iww, approvato in quella stessa
occasione, affermava perentoriamente che «la classe operaia e la
classe padronale non hanno niente in comune. Non vi può essere pace
finché la fame e il bisogno esistano per milioni di lavoratori e i
pochi, che costituiscono la classe padronale, posseggano tutte le
cose buone della vita».
Quella della lotta di
classe era una scelta politica consapevole e deliberata,
naturalmente. Da allora, gli storici discutono, da una parte, se in
essa fossero più forti le sollecitazioni teoriche congeniale,
riportò tutti alla concretezza del progetto comune, ricordando che
l’obiettivo non era di «migliorare la condizione unicamente dei
lavoratori specializzati», ma di «scendere nei canali di scolo per
arrivare alla massa dei lavoratori e per innalzarli a un livello
decente di vita».
«Non mi interessa un
fico secco - aggiunse - se gli specializzati si iscriveranno o no,
ora. Quando avremo portato nella nostra organizzazione quelli che non
sono organizzati e i lavoratori che non hanno qualifica, allora anche
gli specializzati dovranno fare ricorso [all’Iww] per difendere se
stessi» dagli attacchi padronali.
Più sotto riprenderò
questo filo del discorso, perché proprio quest’inclusività
organizzativa appare oggi uno dei tratti più rilevanti di
quell’esperienza. Ma prima bisogna fare il punto. La storiografia
recente ha di nuovo accantonato l’Iww, dopo la straordinaria
ripresa d’interesse degli anni Sessanta e Settanta. A partire dagli
anni Ottanta reaganiani, negli Stati Uniti si è tornati a parlare e
scrivere sempre meno di lavoratori e di storia operaia.
L’antisindacalismo
dominante nell’ideologia politica e intrinseco alle trasformazioni
epocali della società e dell’economia hanno messo la sordina anche
alla ricerca storica. La sindacalizzazione è crollata.
I tentativi delle
organizzazioni di rivitalizzare un movimento che nel settore privato
e nell’industria è sceso all’8 per cento di iscritti, hanno
recuperato dai magazzini della storia i labor councils
cittadini, cioè l’organizzazione su base territoriale; hanno
aperto le organizzazioni ai lavoratori di immigrazione recente; hanno
esteso agli altri movimenti sociali l’interlocuzione e la
possibilità di fare alleanze, soprattutto sul piano locale.
È come se si fosse
cercato di recuperare frammenti di storia: i labor councils
dalle organizzazioni territoriali dei Knights of Labor ottocenteschi,
dell’American Federation of Labor più antica e della stessa Iww;
l’accoglimento nei ranghi degli immigrati dall’Iww; il ruolo
politico-sociale del movimento sindacale dai Knights of Labor e dal
Congress of Industrial Organizations dei passati anni Trenta.
Tutto questo finora non è
bastato. Né basterà in futuro, se dal passato del movimento operaio
statunitense e internazionale non verranno riprese, e rimodellate
sulle nuove realtà, anche altre categorie, strategie, prospettive.
In particolare, ed è qui
che torna l’Iww, il senso dell'antagonismo sociale e l’inclusione
organizzativa di tutti lavoratori, occupati e no, precari e
immigrati.
Torniamo a Haywood;
anzitutto alla sua critica della elitaria gelosia di mestiere delle
trade unions: «Il lavoratore specializzato ha organizzato un
sindacato per sé, riconoscendo che nell’unione è la forza. E ha
innalzato un muro intorno a quell’unione, che impedisce ad altri di
entrare a farne parte...Ci sono sindacati in questo paese che
chiedono a chi si iscrive una tassa d’iscrizione che arriva a 500
dollari. Come i soffiatori di vetro, per essere chiari; ma quanto
tempo ci vorrebbe per uno che prende un dollaro, un dollaro e un
quarto al giorno e deve pensare alla famiglia per mettere da parte
abbastanza soldi per versare la quota d’ingresso in quel
sindacato?».
Si tratta di un
esclusivismo miope e senza futuro, perché l’evoluzione produttiva
ha trasformato le mansioni degli stessi specializzati, togliendo loro
potere sul terreno produttivo. Nella fabbrica d’oggi «non esistono
più specializzati. Nei macelli non ci sono più macellai; c’è
un’infilata di uomini la cui specializzazione sta solo nel fare la
loro piccola parte e basta. La macchina è l’apprendista di ieri e
l’operaio finito di oggi». E la ragione per cui «la macchina sta
rapidamente prendendo il vostro posto e presto vi avrà rimpiazzati»,
è che, infine, «non esiste in questo paese un capitalista
imprenditore o una corporation che, se fosse possibile, non farebbe
funzionare l’intera sua fabbrica con le sole macchine, liberandosi
di tutti gli esseri umani che ora sta impiegando».
Non esistevano dunque
alternative alla lotta di classe e all’unione di tutti i lavoratori
in una grande «organizzazione le cui porte siano aperte per far
entrare ogni uomo, donna e, se necessario, ragazzo che lavori per un
salario, sia con le braccia, sia con il cervello».
Tutti, con parole
analoghe, espressero lo stesso concetto in quel congresso. Del resto,
il preambolo alla Costituzione dell’Iww, approvato in quella stessa
occasione, affermava perentoriamente che «la classe operaia e la
classe padronale non hanno niente in comune. Non vi può essere pace
finché la fame e il bisogno esistano per milioni di lavoratori e i
pochi, che costituiscono la classe padronale, posseggano tutte le
cose buone della vita».
Quella della lotta di
classe era una scelta politica consapevole e deliberata,
naturalmente. Da allora, gli storici discutono, da una parte, se in
essa fossero più forti le sollecitazioni teoriche provenienti dalle
componenti anarchiche oppure socialiste, socialiste rivoluzionarie
oppure anarcosindacaliste e, dall’altra parte, se fossero decisive
le passate esperienze politico-sindacali «americane» oppure quelle
«internazionaliste».
Non sono questioni
campate per aria: tra il 1905 e la prima guerra mondiale esse furono
a lungo e ripetutamente dibattute in tutta la sinistra statunitense.
Nella stessa Iww le correnti o fazioni che si richiamavano all’uno
o all’altro modello teorico e organizzativo si scontrarono
vigorosamente, quasi sempre portando nella vita interna gli echi e
gli esempi di quanto altri rivoluzionari stavano facendo in Europa e
altrove. Per quanto importanti siano dal punto di vista storiografico
e filologico quelle questioni, mi sembra che oggi non meritino il
proscenio.
È l’altro aspetto,
invece, che mi sembra valga la pena di richiamare e, in una certa
misura, attualizzare, avendo in mente i dibattiti intorno alle
finalità, alla natura e all’azione del sindacato nella
trasformazione sociale e produttiva attuale.
Il punto di vista sulla
realtà espresso dall’Iww non era quello degli specializzati,
skilled, che a torto o a ragione ritenevano di avere ancora un
certo potere contrattuale e che godevano di alti salari, nonostante
la trasformazione produttiva (il taylorismo stava ormai penetrando
ovunque e, nel giro di un decennio, avrebbe fatto la sua comparsa la
fabbrica fordista). L’angolo di visuale aveva il suo vertice nella
grande massa dei dequalificati, unskilled, senza mestiere e
senza potere. Nel guardare alla realtà da quella posizione gli
wobblies rivelavano contemporaneamente la giustezza della loro
analisi e la generosità dei loro intenti.
Nei vent’anni
precedenti, la composizione della classe operaia negli Stati Uniti
era cambiata in modo radicale. La popolazione delle grandi città era
composta per oltre un terzo di immigrati. A seconda dei luoghi, dai
tre quarti al novanta per cento dei lavoratori manuali era composto
di immigrati e dei loro figli (e in piccola parte di afroamericani),
la stragrande maggioranza dei quali era entrata nel mondo industriale
e produttivo da unskilled.
All’inizio del secolo,
quello era il presente e il futuro della classe operaia. Nessun
progetto di trasformazione radicale dei rapporti di produzione e
della società sarebbe stato neppure pensabile senza il
coinvolgimento di questa massa straordinaria di persone.
L’avevano già capito i
Knights of Labor, quando il cambiamento era agli inizi, ed erano
arrivati a oltre 700.000 iscritti, prima di essere spazzati via dalla
repressione seguita ai fatti del maggio 1886. Lo sapevano anche i
dirigenti dell’American Federation of Labor, che però nell’ultimo
decennio dell’ottocento scelsero la via dell’esclusivismo di
mestiere, dopo essersi liberati dei socialisti al loro interno.
Ora l’Iww intendeva
coinvolgere gli immigrati unskilled nel suo progetto di
società futura, in cui i lavoratori «prendano e si tengano quello
che producono col loro lavoro». Per questo i suoi «agitatori»
parlavano e pubblicavano giornali e volantini in tutte le lingue
necessarie, correvano da un posto all’altro, erano in prima fila
nell’organizzare e condurre le lotte. La loro organizzazione fu la
meno gerarchica possibile. Facevano propria la precarietà dei
lavoratori cui si rivolgevano o da cui erano chiamati; vivevano allo
stesso loro modo.
È impossibile dire che
cosa sarebbe successo di questa idea di democrazia industriale
radicale, senza la guerra e la repressione brutale che colpì loro e
le sinistre tra il 1917 e il ’21.1 dequalificati di allora erano
come i precari d’oggi. Erano tanti, senza diritti e ricattabili,
sia socialmente, sia nei luoghi di lavoro. Le loro occupazioni erano
instabili, poco retribuite, senza protezioni.
L'Iww rifiutava i
contratti -che peraltro pochi imprenditori concedevano - perché la
maggioranza dei suoi membri apparteneva alle fasce operaie che non
avevano mai potuto trattare con i padroni. «Il padrone non ti guarda
mai in faccia, non ti guarda mai negli occhi. Non gliene importa
niente dei tuoi sentimenti, né della tua situazione, delle tue
angosce, dei tuoi dispiaceri...» aveva detto Haywood.
L’Iww aveva capito
quello che Henry Ford avrebbe capito quasi dieci anni dopo: che i
precari, in genere giocati gli uni contro gli altri nella
competizione per un posto di lavoro, potevano essere un’arma contro
il capitale. Ford cercò di «comprarli», loro cercarono di
organizzarli. Riuscirono entrambi nel loro intento. Ford introducendo
d’autorità, nel 1914, la giornata di otto ore e un compenso
giornaliero di cinque dollari. Era cosa soltanto per pochi e
sottoposta a condizioni e i cinque dollari erano salario solo per una
parte (per il resto redistribuzione dei profitti), ma grazie
all’enorme valore simbolico della riduzione d’orario con aumento
di salario ridusse l’avvicendamento degli unskilled. Quindi,
con le sue squadracce parafasciste tenne l’Iww e tutti i sindacati
fuori dalle sue fabbriche.
Anche gli wobblies
riuscirono nel loro intento, però solo localmente e in modi
rapsodici, in lotte entusiasmanti ma anche nei limiti imposti dalla
fatica di Sisifo di tenere collegata, organizzata, una materia viva
in perenne movimento, instabile e, in una certa misura, inaffidabile.
Poi, non gli fu lasciato il tempo. Tuttavia, l’Iww aveva guardato
lontano e aveva visto giusto: senza la massa dei precari e senza
lotta di classe i movimenti operai non possono che spegnersi.
alias il manifesto, 25 giugno 2005
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