28.12.10

Un giornalista in lotta per la verità. Il tirocinio di Antonio Gramsci .

Nel Novecento, quando aveva idee di rivoluzione sociale e avvertiva in sé le qualità, il giovane si immaginava nei comizi a parlare con le masse, nelle istituzioni rappresentative a denunciare magagne e accusare governi corrotti, si vedeva alla testa di poderosi e affollati cortei di scioperanti tra grida e bandiere o, quando osava sognare, di vere e proprie insurrezioni popolari. A questo modello esemplare di rivoluzionario la guerra partigiana nella nostra Resistenza e i miti nati nelle rivoluzioni dei paesi ex coloniali o semicoloniali (Cina, Cuba e Vietnam, soprattutto) avevano sovrapposto l’immagine del guerrigliero, senza tuttavia cancellarlo.
Ho l’impressione che al giorno d’oggi ci sia stato un mutamento profondo e che tra i ragazzi intenzionati a cambiare il mondo i più svegli si pensino giornalisti, non già militanti politici, uomini di lotta e di governo.
Le ragioni sono due.
Prima: in politica i buoni esempi sono sempre più rari.
Seconda: l’informazione e la comunicazione di massa sono diventate un terreno assai importante (forse il più importante) della lotta politica e sociale.
Al tempo della mia gioventù erano vivi e attivi uomini politici come Amendola, Pajetta e Terracini, come Pertini, Lombardi, Foa e Nenni, persone in cui convergevano tensione morale e disinteresse personale, coraggio ed eloquenza, sentimento e ragione; oggi la gioventù giornalistico-rivoluzionaria guarda come un modello a Saviano ed è giunta ad inventarsi un Peppino Impastato giornalista (piuttosto che leader e organizzatore politico).
Rileggendo oggi, a 3 anni e più di distanza, l’articolo qui sotto “postato”, dello storico Angelo D’Orsi (da “La Stampa” del 24 aprile 2007), pieno di acute intuizioni tese a valorizzare in Gramsci il lungo tirocinio di “giornalismo” rivoluzionario, mi sono chiesto se non sia il caso di proporre a questi giovani il modello (di analisi, di scrittura, di prospettiva, di intransigenza) del gran sardo. Mi è bastato recuperare qualche ricordo e sfogliare qualche volume per farmi rispondere sì. Senza esitazioni. (S.L.L.)   
Gramsci giornalista
Davanti alla barricata dei 16 mila titoli pubblicati su Gramsci potrebbe sembrare difficile trovare qualcosa di nuovo da dire; invece, come per tutti i classici, le scoperte e le sorprese non finiscono mai. Oggi, nel celebrare i 70 anni dalla morte, invece di chiedersi, classicamente, «che cosa rimane» in lui, si può tentare di guardarlo da una prospettiva particolare, apparentemente minimale. Ossia, il Gramsci giornalista. Che corrisponde, in larga misura al Gramsci «torinese» (1911-22), partendo dal presupposto che è tempo di smettere di leggere l'intero corpus dei suoi scritti in funzione dei Quaderni del carcere, quasi che quindici anni di attività di scrittore, giornalista e pensatore valessero come mera «preparazione» ai testi carcerari. Essi rappresentano il punto più alto e complesso della sua elaborazione, ma ciò non deve indurci a sottovalutare la produzione precedente, leggendola sotto specie di «anticipazioni». In quel decisivo periodo (quasi undici anni), il sardo si fece compiutamente italiano, aderì al socialismo, corresse in senso antidogmatico il marxismo, e reinventò il mestiere di giornalista - ecco il punto di vista da cui voglio parlare di Gramsci - che svolse, in modo continuativo, dalla fine del 1915, quando l'Italia era intervenuta nel conflitto mondiale. Su testate come l'“Avanti!”, organo del Psi, o “Il Grido del Popolo”, giornale dei socialisti torinesi, e dal 1919 “L'Ordine Nuovo”, prima settimanale, poi quotidiano - il primo a essere chiuso, con la violenza, dal fascismo all'indomani dell'ascesa al potere - egli mise in pratica un giornalismo che rinnovò profondamente le modalità della comunicazione politica. Abbandonando il livello della propaganda, Gramsci provò a dar vita a un giornalismo capace di coniugare un'informazione documentata, da vero e proprio scienziato sociale, con la forza espressiva dello scrittore, che si serve dell'ironia, pronta a divenire sarcasmo, polemica aspra, attacco frontale: eppure sempre i suoi bersagli, uomini o istituzioni, sono messi con le spalle al muro, dai dati, dalle cifre, dalle informazioni precise e dai ragionamenti ineccepibili di quel giovane che non era giunto alla laurea, nella Facoltà di Lettere dell'Ateneo torinese; esperienza importante, tuttavia, specie perché in quell'humus «positiva» egli corroborò il suo innato rigore, umano e intellettuale. Il retroterra del Gramsci giornalista degli anni torinesi non e' solo quello della grande tradizione culturale e civile della città «più positiva d'Italia» (per dirla con Bobbio): ma è anche e soprattutto, progressivamente, quello del mondo industriale, della produzione, della fabbrica, degli operai, che divennero via via fuoco della sua elaborazione teorica e dell'azione organizzativa. Quel retroterra di serietà e di impegno, egli lo portò nei suoi «pezzi». Non rinunciò a fare del giornalismo un mezzo d'azione politica, aggiungendovi una componente specificamente culturale e pedagogica (tant'è che “L'Ordine Nuovo” fu tacciato di «culturalismo»); ma per Gramsci il giornalismo fu soprattutto strumento di conoscenza e di analisi della realtà. Osservatore acuto della vita sociale, politica e culturale, si servì di uno stile brillantissimo, capace di mescolare sapientemente analisi scientifiche e affondi di battaglia politica o, su altro registro, pezzi di un lirismo che raggiunge ancora oggi il cuore del lettore. La penna di Gramsci non era intinta soltanto nello zolfo della corrosiva polemica da giornalista di eccellente vena; era una penna che non rinunciava a ricordare ai suoi lettori che quelle righe di piombo sulla carta possono essere assai più importanti del piombo delle pallottole: esse sono il luogo di una verità che è battaglia per difendere chi ha bisogno di essere difeso, gli umili, e per rivendicare i diritti di chi li vede ogni giorno conculcati: gli oppressi. Ma quel che rende particolarmente significativo il giornalismo gramsciano è il contesto bellico. Da questo punto di vista gli studi sono in debito con Gramsci, a cui non hanno ancora a sufficienza riconosciuto il ruolo eccezionale da lui svolto in quel tempo di guerra. Oggi, epoca di guerra infinita e permanente, in cui troppo spesso l'informazione appare ingessata e subordinata ai diritti dell'audience e alle pressioni del potere, riscoprire il giornalismo di guerra di Antonio Gramsci non solo ci può far capire che non necessariamente gli inviati speciali, i divi della comunicazione, sono quelli che ci avvicinano ai fatti; ma soprattutto ci indica un modello di deontologia e di serietà, che la militanza politica non valse a stravolgere. Documentato e polemico, raziocinante e militante, pacato e sulfureo, Gramsci giornalista, in tempi di guerra - tempi di menzogna - condusse niente di meno che una lotta «per la verità», come si intitolava, significativamente, il suo primo articolo.
Angelo D'Orsi 

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