12.1.15

Il “reuccio”. In morte di Claudio Villa (Roberto Campagnano)

Era "la" canzone italiana. Anzi era l'Italia. Non quella che oggi segue pigramente la noia delle gigantografie sanremesi. Ma l'Italia che ieri assisteva con entusiasmo compiaciuto, divertito, alle spesso clamorose impennate dell'uomo che aveva incoronato "reuccio". Con un diminutivo che stava a significare che la fiducia, così largamente accordata, era comunque limitata: alla prima che mi fai...
Era questo che aveva trascinato l'uomo Villa alla lotta, perennemente ingaggiata - donchisciottescamente - contro invisibili mulini al vento: la sfida contro chiunque avesse potuto mettere in dubbio la sua straordinaria supremazia nel mondo della canzone. Un'aggressività che in realtà aveva ereditato, si era coltivato, in ambiente famigliare - lo ha raccontato lui stesso nell'autobiografia Una vita stupenda pubblicata in questi giorni da Mondadori - sin dal giorno in cui i suoi genitori furono invitati a lasciare la fabbrica perché "sovversivi" e dunque "indesiderati" (era il 1926 scrive Villa "il fascismo era ancora in fasce, ma aveva già fatto molte vittime fra quegli italiani che non intendevano piegarsi ai suoi voleri") e che lo aveva portato da una parte alla militanza comunista, dall'altra a svolgere un ruolo sempre provocatore all' interno del "sistema" dei discografici, degli organizzatori dei festival, della Rai, ecc.
A 61 anni, Villa mantiene intatto il suo smalto internazionale e la sua vis polemica. Al contrario dei suoi rivali degli anni d'oro, come Oscar Carboni, Luciano Tajoli ha avuto la fortuna di una voce scintillante fino all'altro ieri, cosa che gli ha permesso di andare in tournèe in tutto il mondo fino all'ultimo. In patria invece la sua immagine si va offuscando negli ultimi anni, anche grazie ad alcune uscite o "associazioni" non troppo fortunate. E lui continua a lamentarsi, a veder ovunque congiure ai suoi danni, una vera ossessione, sempre una nuova battaglia.
L'Italia del dopoguerra, per un giovane che ne ha già viste di tutti i colori, che ha già avuto la sua palestra di vita (finisce pure in galera) premia la sua passione caparbia, la voglia di "sfondare". Dopo anni di fame, nel 1951 Villa è già l'usignolo d'Italia, alla radio riesce a farsi strada fra Pippo Barzizza e il maestro Fragna, Silvana Foresi e Dea Garbaccio, Otello Boccaccini e Alberto Rabagliati. La sua voce stentorea si afferma rapidamente su quella dei ben più sdolcinati colleghi, le sue canzoni melodrammatiche fanno piangere gli italiani di calde lacrime. "Luna rossa", "Serenata celeste", "Borgo antico", "Bocca desiderata", "Letterina del soldato", creano una folla di fans entusiasti, le donne sognano, gli uomini meno, sono sempre lì pronti allo scivolone di quel piccolo arrogante. Lui a volte perde la testa. Giunge a pronunciare - novello Mussolini - quello che viene definito il "discorso del piedistallo": "Giunto alle più alte sfere della popolarità, ho provato a piegarmi dall'alto del piedistallo su cui mi hanno fatto assidere...".
Ma di pari passo con il successo, aumentano le congiure, le ossessioni. Come quella che si svolge sotto i suoi occhi - è ancora Villa a raccontarlo nell'autobiografia - ordita ai suoi danni da Miranda Bonansea, la moglie con la quale non andò mai d'accordo, e il suo pianista, "il lurido ciociaro", lo definisce lui stesso nel libro, che avevano una relazione con la compiacenza del suo impresario, "il lurido fiorentino".
L'ascesa, comunque, è rapida. Villa, come un autentico guerriero, piazza i suoi brani dovunque, spara a zero sulla critica che lo tratta con sufficienza, prende le distanze dai più giovani che incalzano. Un'altra delle ossessioni infatti, sembra essere costituita dal fatto che le nuove generazioni possono contrastargli il passo. Non ammette che si possa nemmeno lontanamente pensarlo. Il regno è suo e basta. Si compra la bicicletta, poi decide che la motocicletta è il mezzo che gli dà l'immagine più giovanile. Alla prestanza fisica, abbina il prestigio: ha conosciuto Frank Sinatra, ha cantato con lui. Le foto che abbondantemente corredano la sua autobiografia lo ritraggono accanto a Benny Goodman, i Platters, Edith Piaf, Perry Como, Luciano Pavarotti, "Ormai era chiaro che la mia popolarità era tale" scrive Villa "che avrei ottenuto successo con qualsiasi tipo di orchestra e qualsiasi tipo di canzone. Tutto ciò da un lato mi conferiva enorme prestigio, ma dall'altro, come potete facilmente capire, mi attirava invidie e antipatie a non finire".
"Buongiorno tristezza", "Il torrente", "Incantatella", "Ondamarina", "Binario", "Granada", "Non pensare a me"... Non sta mai fermo. Quando non partecipa a festival o a trasmissioni televisive è in viaggio: in Argentina, negli Usa, in Spagna, in Giappone, in Russia. E dovunque riscuote un grande successo. Il presenzialismo e l'aggressività si moltiplicano, Villa comincia a difendersi da tutti i possibili aspiranti al titolo: di Modugno diventa amico, di Morandi non perdona il tentativo, alla Canzonissima 66 (che vince con Granada) di speculare sul fatto che proprio in quelle ore Laura Efrikian ha dato alla luce una bambina che però è spirata poco dopo. Lo staff di Morandi - sostiene Villa - non ebbe il tempo materiale di divulgare la notizia.
Girando l'Italia (Villa non ha mai smesso di fare le sue "piazze") nel '66 capita ad Arezzo, dove Licio Gelli - conosciuto per caso in un ristorante di Parma o Piacenza - lo va a trovare in camerino con il figlio Raffaele e lo invita a casa sua. (Una lettera di Gelli viene esibita fra i materiali della sua autobiografia). Che significa? Villa probabilmente da sempre militante comunista, anche da quella parte non si è sentito sufficientemente protetto, garantito. E i comunisti inoltre non hanno mai fatto granché per cambiare le regole che hanno sempre dominato il mondo della canzone italiana. Logico che il cantante sia stato attratto da chiunque gli abbia dato un minimo di quella fiducia che non ottenne mai pienamente.
Un fatto è certo: Villa - a parte forse gli ultimi tempi - non ha mai fatto nulla per restare simpatico a qualcuno, per accattivarsi la simpatia della gente, degli impresari, dei discografici. Non ha mai smesso di creare difficoltà, non ha mai smesso di litigare con chiunque. Ed è sempre stato se stesso, con i suoi atteggiamenti arroganti, bulleschi, a volte proprio antipatici. E, nello squallido mondo di compromessi della canzone italiana, resta uno dei pochi che hanno cercato di farsi apprezzare per le proprie capacità e basta. Con coraggio, grinta, forza, lavoro. Un esempio - messe da parte certe intemperanze - per chi invece pensa oggi che il successo possa cadere dalla nuvole. Come si è visto ieri a Sanremo, la patria di Claudio Villa.


“la Repubblica”, 8 febbraio 1987

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