25.9.15

Ho rubato due versi a Baudelaire (Attilio Bertolucci)



Ho letto la prima volta I fiori del male nella traduzione (la prima, che io sappia, in italiano e in prosa) dovuta a Riccardo Sonzogno. Avevo tredici anni, frequentavo la terza ginnasio inferiore, una sorta di scuola media molto più difficile, molto più formativa, molto meno democratica, forse. E da "bambino innamorato di stampe e di mappe", avevo su una bancarella scovato quella traduzione di Riccardo Sonzogno uscita proprio nella benemerita, benedetta Biblioteca Universale Sonzogno, nella quale poco più tardi trovai le Foglie d'erba di Walt Whitman e scoprii il meraviglioso, liberatorio verso libero. Ma ecco che sui sedici anni, posso accedere alla Biblioteca Palatina di Parma dove, finalmente, mi è dato leggere Les fleurs du mal.
Da allora, in varie edizioni sino alle due della "Pléiade" non ho fatto che leggere il mio Baudelaire, dico mio perché me ne sono appropriato, eseguendo inconsciamente operazioni di rimozione forse non troppo lecite. Oggi il poeta Cosimo Ortesta mi obbliga a leggere tutto il libro: sua bella traduzione, testo implacabilmente a fronte e molte utilissime note, tanto più utili quanto più secche, essenziali, senza sbavature estetiche. Era giusta questa lettura ultima. Ma non mi ha guarito dal morbo che mi fa, non dico scegliere, fissare a lungo gli occhi sulle poesie che più amo; e potrei farne a meno, ormai, perché le so a memoria, con affioramenti improvvisi, ossessivi di versi, magari utili ai fini della mia meteorologia personale: "O fins d' automne, hivers, printemps trempés de boue [...]".
In cerca di chi potesse giustificarmi, improvvisamente mi sono ricordato che l' altro scrittore di tutta la mia vita, Marcel Proust, aveva scritto in due diverse occasioni pagine immortali su Baudelaire: le prime raccolte in Contre Sainte-Beuve, le altre uscite in un numero della Nouvelle Revue Francaise e sollecitate da Jacques Rivière. L' attacco: "Mon cher Rivière, une grave maladie m'empèche...". Morì qualche mese dopo.
I poeti muoiono: a 47 anni doveva morire il mio Baudelaire, afasico, riuscendo a malapena a scarabocchiare su un pezzo di carta "Pregate per l' anima di Mariette e di Edgar Poe". O cristianissimo, tanto più cristiano quanto più bestemmiatore, povero Charles. Qui vorrei ricordare, e ci ritornerò, una delle poesie che ho impresso indelebilmente nella mia memoria e nel mio cuore, per sempre. "Alla serva che destava la vostra gelosia, / e che dorme il suo sonno sotto l'umile prato, / dovremmo qualche volta portarle un po' di fiori". Era Mariette.
Ma non seguitemi in questo errare, leggete per intero I fiori del male, troverete altro da quanto testardamente continuo a chiamare "il mio Baudelaire". Forse uno psicoanalista potrebbe dire che rimuovo per non soffrire unitamente al poeta, che terribilmente soffriva. Ma voglio citare qui i due primi versi dello stupendo Crepuscolo del mattino: "Cantava la diana nei cortili delle caserme, / e sui lampioni soffiava il vento del mattino". E ora citarne gli ultimi, inebrianti: "Tremante, in una veste rosa e verde, lenta / spuntava l' aurora sulla Senna deserta". Confesso che non ho imitato, Baudelaire è inimitabile, ma rubato questi due versi a chiusura di un canto della Camera da letto. Volevo ribadire, forse contraddicendomi, che mi son fatto una piccola antologia personale che non dovrei variare mai.
E invece, rileggendo interi I fiori del male, trovo una delle poesie a me meno care, Una carogna. Ed ecco, o meraviglia, una quartina in cui non più fetore, larve, eccetera, ma la improvvisa, sublime metafora: "E una musica strana da quel mondo emanava, / come vento, corrente d'acqua, o grano / che volge e agita nel vaglio / il vagliatore con ritmo cadenzato". Sì, il grano, il vagliatore, il vanneur, descritti con tanta precisione da suonare familiari a me, figlio della campagna, tanto più sorprendenti se scritti dal poeta della città. Proseguendo la rilettura del gran libro mi sento avviluppato dalla sua tenebrosa e profonda unità: ma perché non potrebbero colpirmi di più, abbacinarmi, le lame di luce che vittoriosamente investono il tenebrore del libro? Come nelle Vecchine, il poemetto forse più crudele e pietoso che Baudelaire abbia scritto, voyeur implacabile e affettuoso: "[...] ogni sera vi mando un solenne addio [...] Eve ottuagenarie[...]". Ed ecco il poeta ne ha seguita una "[...] tra le altre, nell' ora del tramonto / quando il cielo s' insanguina di ferite vermiglie, / su una panca, pensosa, seduta in disparte, / dei nostri soldati ascoltava un concerto, ricco / di ottoni, di quelli che inondano i giardini, / nelle sere d' oro quando sembra di rinascere, / e infondono eroismo nel cuore dei cittadini". Nessuna ironia, non sembra rinascere anche il poeta a quella musica? E infatti, in un' altra poesia: "Il suono della tromba è così delizioso, / nelle sere solenni di celesti vendemmie, / in tutti filtrando un' estasi [...]".
Altri due poemetti per me eccelsi dopo Le vecchine sono Il cigno e Il viaggio. Il primo con quell'attacco entrato nel nostro cuore, più che nella nostra memoria, con un rintocco infinito. "Andromaca, io penso a voi! [...] l'immensa maestà del vostro lutto vedovile". Ma d'improvviso, a sorpresa, sentite "[...] la vecchia Parigi non c' è più (cambia d' aspetto / una città più velocemente, ahimè, del cuore dei mortali)". Chi da Parigi che cambia (sono gli anni di Haussmann) non sente che il poeta parla per tutti, per noi cui dinanzi agli occhi cambia la nostra città? "[...] Palazzi nuovi, impalcature, massi, / vecchi sobborghi, tutto per me diventa allegoria / e i cari ricordi pesano come rocce".
Ma passiamo al complessissimo Viaggio. Non vogliamo procedere nel suo intrico, sia pure pausato sapientemente in sei parti numerate. Ancora una volta cedo a quanto la memoria per anni e anni mi ha serbato. E lo dico subito, la prima e la penultima quartina, per due ragioni diversissime. Ero così giovane quando mi hanno incantato i primi due versi da farmi illecitamente identificare al "bambino innamorato di stampe e di mappe", questo bambino per cui "l' universo sembra pari alla sua vasta brama". Ben diversa e tale da portarmi a meditare sulla natura del moderno, della poesia pura, la penultima quartina. Il primo verso, conosciutissimo, suona veramente d' una novità impressionante: "O Morte, vecchio capitano, è tempo, leviamo l' ancora". Chi mai prima di Baudelaire aveva osato, quella Morte tante volte raffigurata dal Gotico al Barocco (sempre falciatrice di vite umane), vestirla da vecchio capitano di mare, cui chiedere di "levare l' ancora"? Più avanti: "Questo posto ci annoia, o Morte! Salpiamo! / Se cielo e mare sono neri come inchiostro, / i nostri cuori, tu li conosci, sono pieni di luce". Forse la poesia moderna inizia con quel "Morte, vecchio capitano"? E' stato detto e stradetto, ma se Baudelaire è il primo dei moderni è anche l'ultimo degli antichi, vedi la sua fedeltà alla prosodia tradizionale. E qui vorrei (è soltanto un'approssimazione) considerarlo come un Manet rispetto a un Monet. Ripenso al gran Baudelaire cronista di salons, di esposizioni: ma non fece in tempo ad andare oltre Delacroix, con il quale, come con lui, si sente in bocca un sapore mischiato di sangue e di voluttà.
Ma chi sono i moderni venuti dopo di lui? Due nomi, subito: Rimbaud e Mallarmé. Non voglio inoltrarmi nell'assoluto del primo, del voyant, del profeta del dereglement, impossibile a seguirsi senza il rischio di perdersi. Mallarmé, con i suoi ventagli, i suoi fauni, i suoi azzardi sta ormai sotto "l'eternel azur" del "vivace aujourd'hui". Verranno dopo di lui Paul Valéry, il suo cimitero marino, "toit ou marchent des colombes". Poteva il vieux capitaine salpare e giungere a tale meraviglioso cimitero sul quale "Midi le juste y compose de feux / la mer, la mer, tojours recommencée"? Qualche anno fa a Parigi, dove non sono mai stato al Père-Lachaise, nel quale giacciono sepolti, meta di infiniti pellegrinaggi, tutti i più famosi scrittori di Francia, ho cercato e trovato con difficoltà, al cimitero di Montparnasse la stele sotto cui giace il povero Charles. Ho portato qualche fiore, non ve n' erano altri. E mi son tornati alla memoria quei versi: "I morti, i poveri morti hanno grandi dolori / [...] sentono le nevi dell'inverno sgocciolare / e il secolo passare, senza un parente o amico / che cambi gli stracci appesi alla loro grata". Sono felice d'avergli portato un mazzetto di fiori, mi sento perdonato di essermi preso tante e tante libertà con il suo grande libro. Ma non ci accade di farlo anche con la Commedia?


Prefazione a I fiori del male, Classici Giunti, 1996 a cura di Cosimo Ortesta. Pubblicata come anticipazione su “la Repubblica”, 5 marzo 1996

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