2.10.15

Pietro Ingrao. Il Politecnico e oltre: politica e cultura (1990)

Dalla lunga intervista a Nicola Tranfaglia stampata con il titolo Le cose impossibili, riprendo un brano che fu pubblicato da “la Repubblica”. (S.L.L.)

Forse è il momento di discutere la questione del “Politecnico”. Come hai vissuto l'esperienza del Politecnico e lo scontro fra Togliatti e Vittorini sul “Politecnico”?

Una brutta vicenda. Oggi mi appare chiaro che la valutazione su di essa va data al di là del confronto tra diverse e divaricate posizioni teoriche, che in essa vi fu. Che cosa voglio dire? Nella polemica di “Rinascita” si espresse un attacco alla grande letteratura borghese della crisi e ancora più avanti a correnti filosofiche, artistiche e culturali, che sono parte essenziale del Novecento. Questo emerge già nel corsivo di Alicata e duramente sia nella prima risposta di Togliatti a Vittorini, sia nel brutto corsivo (Vittorini se n' è gghiuto e soli ci ha lasciato) con cui risponde alla rottura di Vittorini con il partito. Cioè, per me, l'errore fu concreto: stava nella posizione chiara e sbagliata che veniva assunta verso correnti culturali essenziali in questo secolo, stava nella legnosità con cui si sottovalutavano ricerche espressive, percorsi cognitivi e problematiche, che sono stati costitutivi della vicenda culturale di questo secolo. C'è un interessante saggio sulla vicenda, che è di Giuseppe Vacca. Egli sostiene che Togliatti combatteva contro un'antica separatezza della intelligenza italiana, per chiamarla ad un compito, progressivo e nazionale, di orientamento democratico diffuso. Bene. Ma, a volersi muovere veramente in tale direzione, bisognava entrare nel merito: come si rompeva la separatezza se non misurandosi concretamente con le problematiche che quelle correnti culturali e artistiche recavano con sé? Può darsi che a me facciano velo le mie passioni letterarie, i miei amori verso testi, autori, di cui già ti ho parlato. Ma, nel mio piccolo, era una testimonianza che quelle esperienze avevano seminato una inquietudine, non un conformismo. Contrapporre ad esse gli uomini chiari e semplici della letteratura era davvero sommario. Comprendo bene che in Togliatti - e lo aveva già detto nella famosa polemica con Prezzolini, e lo ripeté anche a Vittorini - agiva potentemente il ricordo cupo della frantumazione o addirittura dell'abdicazione di fronte al fascismo, a cui erano approdati figure, gruppi, circoli dal primo Novecento letterario e filosofico italiano. L'assillo, insomma, di lottare contro la separatezza del ceto intellettuale. Ma il giudizio concreto che scaturiva da quell'assillo era sommario e infondato, e metteva troppo in un sacco solo vicende diverse, e assimilava a vicende italiane percorsi europei di ben altro respiro. Fu zdanovismo? Non farei confusioni. Ci fu anche dello zdanovismo nella vicenda culturale del Pci. Ma nella polemica con “Politecnico” fu altro: non fu mai affermare l'imperio di una dottrina di partito nella cultura. Fu debole e arretrata la valutazione dei percorsi culturali europei. Questo fu il limite. E costò. Detto questo, la posizione di Vittorini sul piano teorico mi parve per lo meno assai discutibile; e non mi convinceva. Lo dico in breve: egli affermava un primato della cultura come storia rispetto alla politica intesa come cronaca e direi - parole mie - come amministrazione. Salvo il caso di rivoluzione in cui la politica si eleva a cultura come storia (il caso di Lenin...). Io non riuscivo ad accettare questa concezione subalterna della politica, che invece mi appariva anch'essa come un momento essenziale, specifico della più generale battaglia culturale. In nome di che intendere la politica come cronaca? Io ero arrivato alla politica attraverso uno stringente assillo generale, attraverso un allarme sulle sorti del mondo, e sul rischio che correva il più intimo bisogno di libertà. Il problema mi appariva quello delle autonomie e delle connessioni dei diversi momenti di una creatività culturale. E certamente allora non avevo chiaro come articolare e sciogliere il problema. Ma quella politica ridotta come dire? a gestione contraddiceva profondamente alle esperienze più intense della mia vita. Naturalmente queste cose mi sono più chiare oggi. Ma già allora mi crearono un malessere, un attrito. Per dirla in volgare, mi sentii come un asino in mezzo ai suoni. Cu fu anche sofferenza. Conversazione in Sicilia era stato uno dei libri della mia generazione. Forse già allora, quando uscì nel ' 41, alcuni di noi ne demmo una lettura troppo politicista: gli astratti furori di Silvestro, i nuovi doveri di cui parla il Gran Lombardo, quei siciliani scavati che possedevano solo arance che non riuscivano a vendere, li leggemmo subito, e rudemente, in chiave di dramma sociale. Quanto a me, mi incantarono anche quei dialoghi altalenanti, quello scavare per successive approssimazioni nel ricordo, che rimandavano subito agli autori di Americana (l' antologia famosa di Vittorini), e anche a Lawrence. Mi piacerebbe sapere se oggi Conversazione in Sicilia viene letto dai giovani e che impressione gli fa... In ogni modo, in quella vicenda del “Politecnico” io non seppi parlare. Non fu un'omissione da poco. Perché la questione del rapporto politica/cultura e dell'atteggiamento verso la cultura della crisi del primo Novecento e verso le avanguardie del pensiero e dell' arte che rompevano col realismo e mettevano in discussione lo storicismo progressista tornò negli anni seguenti. E non era questione settoriale. Togliatti lo avvertiva benissimo, e drammaticamente. Lo vedemmo nella discussione aspra che si svolse poi sulle pagine del “Contemporaneo” nel 56. E tornò allora, in polemica col partito, un'idea della cultura non proprio come primazia, ma come autogestione della cultura. Figure diverse come Fortini, Scalia, Guiducci rivendicavano un ruolo autonomo della cultura nel rapporto con la classe e nella costruzione del blocco storico. E la polemica aveva un doppio indirizzo, a volte esplicitato con asprezza, a volte indiretto: il primato assorbente del partito (e quindi l'accusa sottintesa di zdanovismo); e l'arretratezza dell'asse culturale Spaventa-De Sanctis-Labriola-Croce, che appariva dominante nella cultura comunista romana e che Togliatti aveva assunto come centrale nello sforzo di identificare un retroterra del comunismo italiano, un radicamento nazionale profondo del partito comunista. Milano contro Roma? Lo schema è semplicistico. Ma contiene una sua verità. E Milano non era solo Fortini e il suo marxismo e il suo amore per Brecht. Erano anche Pizzorno e Guiducci, che chiedevano sociologia, analisi empirica e che parlavano già dalla sponda del revisionismo socialista. E c'era anche Torino (Barca, Spriano) che chiedeva un esame autocritico della sconfitta operaia del 55 e un'analisi degli sviluppi del neocapitalismo (in fondo contro l' idea considerata romana di un capitalismo italiano estremamente arretrato). I ritardi, gli schematismi teorici, le difficoltà degli anni bui della guerra fredda e del Cominform si pagavano. È facile oggi, anche per me, vederli. Ma è giusto dimenticare che in quegli anni difficili dovemmo lottare contro l'odiosa offensiva maccartista, addirittura contro ritorni clericali, contro politiche selvagge di discriminazione sociale e politica? Vincemmo nel 53 contro la legge truffa e poi contro il governo Scelba-Saragat; ma (lo riconobbe nel 56 anche Togliatti) non riuscimmo dopo quella vittoria a dare il respiro innovativo necessario alla nuova fase.

"la Repubblica", 11 novembre 1990  

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