28.1.18

Giorgio Agamben. Una filosofia per tutti i giorni (Leonardo Caffo)

Raccontarsi: la più alta forma di filosofia. Farlo attraverso gli altri, passando da un’autobiografia a una “autoeterografia”, è concettualmente ancora più interessante perché significa rendere l’altro da sé una componente essenziale della costruzione della propria individualità. Giorgio Agamben, giunto a un punto cruciale di bilancio della sua opera, nel suo Autoritratto nello studio (nottetempo 2017), completa una trilogia iniziata due anni fa con un libro su Pulcinella e uno su Majorana (Pulcinella ovvero Divertimento per li regazzi, nottetempo 2015 e Che cos’è reale? La scomparsa di Majorana, Neri Pozza 2016).
La sua immagine di filosofia, adesso piegata completamente sulla forma di vita e sulle pratiche, si riarticola intorno a tre immagini: scomparire, superare i limiti del linguaggio, raccontarsi.
In questo libro, apparentemente intimo, e in cui c’è spazio per le fotografie e i ricordi di una vita intrecciata con quelle di Elsa Morante o Italo Calvino, di Martin Heidegger e di Giulio Einaudi, si cela in realtà un più universale senso di una vita pensata in cui troviamo spiegazioni per alcuni gesti che hanno reso Agamben leggendario e inspiegabile ai filosofi. Il ritiro dall’insegnamento universitario, il licenziamento dalle istituzioni americane, l’ostilità verso le conferenze, l’assenza da ogni possibile bega accademica, il disinteresse per i media, le televisioni, i social.
Un essere fuoritempo, dentro e fuori le cose come il “suo” Pulcinella, che Agamben giustifica come la capacità filosofica per definizione: per capire la regola, e seguirla, devi necessariamente essere al di fuori di essa.
Questo Autoritratto, così concentrato sugli oggetti delle scrivanie veneziane o romane, ma anche sugli scorci di Parigi e della Germania heideggeriana e “di formazione”, sembra raccontare anche del valore delle cose, dell’accumulo, o di quello che Jacques Derrida avrebbe chiamato “mal d’archivio”.
L’ossessione per i libri, per le foto significanti solo per chi ne conosce già il senso, sono tutti elementi materiali di una tesi che Agamben recupera da Plutarco, contro ogni spirito del tempo possibile: «I più credono che la filosofia sia soltanto quella che si fa parlando seduti su una cattedra o tenendo lezioni su un libro e di quella filosofia che viene continuamente fatta con le azioni o con le opere e che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni ignorano anche l’esistenza». Mentre si diffonde sempre più l’idea di una filosofia come qualsiasi professione Agamben, in un libro che sa anche di congedo, ricorda a tutti l’impossibilità stessa di un tal gesto: la filosofia è una postura, un modo d’espressione, e non un sapere codificato.
Mentre cavalca una vita intera Agamben si concede il vezzo dei nomi propri senza i cognomi (Elsa, Italo, Patrizia) e pare suggerire, con aneddoti apparentemente estemporanei e ridicoli, la pratica della tesi con cui già aveva analizzato le maschere napoletane: il senso della vita, ovvero i limiti del linguaggio, non sono un’esperienza mistica ma tragicomica. È con allegria e pianto che andiamo oltre l’espressione e se proprio dovremo morire, come diceva Deleuze, almeno lo faremo ridendo.


Pagina 99, ottobre 2017

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