19.1.18

Il mito di Françoise Sagan, caso letterario a 18 anni. Una vita tra eccessi e solitudine (Ulderico Munzi)

«Ho amato alla follia - disse - ma per me è l'unico modo di amare»
PARIGI — Adieu, tristesse. Adieu, Françoise. Una pietra tombale e un requiem per il mito letterario che fece fremere la gioventù degli Anni Sessanta. Chi non si riconobbe nei suoi personaggi? Françoise Sagan è morta ieri nella più squallida indigenza, magra come un chiodo, da tempo incapace di scambiare non solo delle idee, ma qualche parola. Se n’è andata per un'embolia polmonare. È accaduto all’ospedale di Honfleur, in Normandia, davanti al mare tempestoso della Manica.
Il mondo della letteratura l’aveva ormai abbandonata, povera drogata e povera alcolizzata, povera di tutto. Del resto i giorni incantati, intessuti d’innocenza e perversione che raccontò nel 1954 in quel suo primo romanzo intitolato «Bonjour tristesse» erano ormai un ricordo svanito dalla sua povera memoria malata. Ricordava vagamente d’essere stata una scrittrice. I vicini della clinica di Honfleur la chiamavano la «povera vecchia». Aveva sessantanove anni, ma ne dimostrava quindici di più. Una «foglia morta». Anche Juliette Gréco, la sua grande amica, non andava più a trovarla: «Non riconosce più nessuno. I suoi occhi sembrano pozzanghere spente». Era stata una scrittrice prolifica. Quasi cinquanta opere, tra romanzi, sceneggiature, novelle, drammi teatrali. Avrebbe dovuto finire i suoi giorni da ricca signora delle lettere, invece il fisco e la giustizia, per un losco affare di petroli in cui lei s’era atteggiata a mediatrice, l’avevano perseguita fin dal 1990 con ferocia, come solo sa fare la stato francese.
Un tempo ci fu dunque «Bonjour tristesse». Era il romanzo scritto da una ragazzina viziata, Françoise Quoirez, nome d’arte Sagan, esile e insignificante, ma spudorata al punto che la soprannominarono il giunco infocato della letteratura francese. Era infarcita di Camus, Sartre e Rimbaud e narrò la scabrosa storia di Cécile e di suo padre Raymond, ambientata nella Costa Azzurra degli Anni Cinquanta. Il libro ebbe un successo folgorante: un milione di copie tradotte in venti lingue. Best seller. Robert Julliard, editore, aveva letto in una notte il manoscritto. Le parole «Bonjour tristesse» erano del poeta Eluard e si addicevano alla vicenda. I toni erano piatti e le scene scorrevano come fotogrammi. Quel che ci voleva nella letteratura francese di quei giorni, dominata e angosciata da Sartre, Gide, Mauriac e Camus. Julliard aveva chiesto all’aspirante scrittrice: «È autobiografico?». «No», rispose lei. «Sono figlia di una famiglia piccolo borghese che ha salvato alcuni ebrei durante la guerra, ma che è rimasta imprigionata nella sua condizione sociale. A casa mia, a Parigi, c’è un gran puzza di cavolo bollito». «Quanto vuoi?», chiese Julliard. «Duecentomila franchi». «Te ne darò il doppio», disse l’editore.
Il nome Sagan l’aveva scelto nella Ricerca di Marcel Proust dove infatti c’è un principe di Sagan. Il regista americano Otto Preminger, nel 1957, fece anche un film con David Niven e Jean Seberg. Furono anni di furia, dall’abisso dei peccati alle vette dei riconoscimenti culturali. Françoise era alla moda, i francesi l’ammiravano per la sua disinvoltura anche quando apprendevano dai settimanali che lei e il marito, l’artista americano Robert Westhoff, facevano orge e si scambiavano le amanti e gli amanti. Seguì, nel 1956, il successo, di «Un certain sourire», poi «Aimez-vous Brahms...» nel 1959.
Françoise scriveva di notte, a letto o in una vasca da bagno, consumo medio di whisky: un litro al giorno, se non di più. Passarono tanti anni di alcol, droga e maldicenza, la Sagan dei tempi incantati non esisteva più. La realtà era quella d'una candela che si stava spegnendo in una una foresta di guai. L’ultimo suo vero successo risaliva ormai al 1972, in italiano era intitolato «Lividi sull’anima».
Il resto della produzione letteraria era un succedersi di tentativi (quasi pietosi) di risollevarsi dall’abiezione. Prima ci fu il processo per droga, perché Françoise frequentava le «tout Paris» della gente bene ma marcata dalla cocaina. Mitterrand, che la scrittrice aveva conosciuto nel 1979, due anni prima del trionfo della sinistra, l’andava a trovare una volta alla settimana e la supplicava di astenersi dalla droga. Poi s’era fatto avanti il fisco e al processo che le aveva intentato lo Stato francese, lei non aveva avuto il coraggio di presentarsi. Tutta la Parigi perfida e spietata era corsa ad aspettarla, nei bui e squallidi corridoi del Palais de Justice, pronta a sghignazzare del «relitto Sagan». Era come inseguita da una maledizione, forse lanciata dagli invidiosi del suo primo successo letterario, quel «Bonjour tristesse» poi tanto odiato dalla stessa scrittrice.
A forza di vederla con Mitterrand, un agente dell’Elf le chiese un giorno d’intervenire perché un ministro dell’Uzbekistan fosse ricevuto all’Eliseo. Era il 1993. Mitterrand si piegò al desiderio della sua amica che, per il suo intervento, ricevette dall’ Elf quattro milioni di franchi. Secondo il fisco, lei li nascose volutamente sotto il materasso. Secondo la Sagan, fu una dimenticanza nella dichiarazione dei redditi. Dimenticanza che in Francia prevede qualche anno di galera. Nei suoi giorni di dolore, la Sagan si chiedeva con un filo di voce: «Perché la Francia mi odia?». A sessantasei anni era impresentabile: le stampelle per una malattia delle ossa, un volto corroso dal tabacco e da notti insonni e sofferenti. Françoise era come un’ombra che sfuggiva la luce. Non possedeva più nulla. E persino i fotografi le davano la caccia per mostrarla nella sua estrema povertà fisica e mentale. È dovuta morire perché una certa Francia smettesse di odiarla.

Corriere della Sera, 25 settembre 2004

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