16.1.18

Margherita Cagol, detta Mara, 1945 – 1975. Vita e morte di una brigatista rossa (Verena Mantovani)

Cari genitori non pensate per favore che io sia incosciente. Grazie a voi sono cresciuta istruita, intelligente e soprattutto forte. E questa forza in questo momento me la sento tutta. È giusto e sacrosanto quello che sto facendo, la storia mi da ragione come l’ha data alla Resistenza del ’45. Ma voi direte, sono questi i mezzi da usare? Credetemi, non ce ne sono altri.” (Lettera ai genitori, 1972)
Cosa spinge una ragazza cattolica, che resterà sempre legatissima alla sua famiglia, a scegliere la clandestinità e la lotta armata? 
Margherita è l’ultima di tre figlie: il padre gestisce a Trento la “Casa del sapone”, la madre lavora in una farmacia.
 La famiglia è molto unita, in settimana si lavora e si va a scuola, la domenica a messa perché la religione è molto sentita da tutti. D’estate la figlia grande, Milena, va agli scout, mentre Lucia e Margherita in colonia. Margherita ha come guida spirituale un prete gesuita, nei pomeriggi tiene compagnia agli anziani negli ospizi di Trento. È sportiva: scia, gioca a tennis, le piace camminare in montagna. Alle superiori si iscrive a ragioneria e si diploma con la media del 7. Durante la scuola comincia a studiare chitarra classica e in breve diventa la terza chitarrista più brava d’Italia, suonando anche all’estero: potrebbe essere quella la strada da intraprendere. Invece no, si iscrive alla facoltà di sociologia a Trento.

In Italia non esiste nulla di simile. Tra i professori ci sono Beniamino Andreatta e Romano Prodi.
Tra gli studenti Renato Curcio e Mauro Rostagno, che dividono una casa in riva al fiume Adige. Questo rifugio diviene ben presto un punto di riferimento per gli studenti. Margherita, da tutti definita seria, tranquilla e riservata, è una delle poche ragazze che frequenta la casa sul fiume, e si lega subito a Curcio. 
È il 1966 e gli studenti di Trento decidono di occupare l’università: è il primo caso in Italia.
 Anche Margherita partecipa a questa protesta ma non rimane a dormire in facoltà, perché i genitori non glielo consentono, deve rientrare a casa alle 19,00…

L’anno successivo comincia a collaborare al giornale «Lavoro Politico» che nel 1968 diventa un periodico di riferimento per la sinistra. 
Alla Facoltà di Sociologia arriva come rettore Francesco Alberoni. A lui Margherita propone la tesi: uno studio sulla Qualificazione della forza lavoro nelle fasi dello sviluppo capitalistico. Si laurea il 29 luglio del 1969 con 110 e lode. Dopo la proclamazione del voto saluterà tutti con il pugno chiuso: nessuno – ricorderà Alberoni – prima di quel momento, aveva avuto questo ardire.

Il primo agosto Margherita e Renato si sposano, contro il parere del padre di lei, che non reputa Curcio capace di prendersi cura della figlia. Il matrimonio verrà celebrato in chiesa, nonostante quello che entrambi pensano del “matrimonio borghese”, ma Margherita vuole evitare la rottura con la sua famiglia. 
Dopo un breve viaggio di nozze i coniugi si trasferiscono a Milano, perché Mara ha vinto una borsa di studio di due anni per un corso di sociologia. Studia la vita di fabbrica, mentre l’impegno politico diventa sempre più pressante. Siamo in pieno “autunno caldo”: scaduto il contratto nazionale dei metalmeccanici, le iniziative di protesta sono continue. 
Margherita e Renato frequentano il CUB (Comitato Unitario di Base) della Pirelli e i Gruppi di Studio che si costituiscono nelle grandi fabbriche: SIT Siemens, Alfa Romeo, Marelli; conoscono Mario Moretti e Alberto Franceschini.
Il 12 dicembre del 1969 accade qualcosa che cambierà per sempre il destino di questa generazione e la storia del paese. In piazza Fontana scoppia una bomba che uccide diciassette persone e ne ferisce novanta e che disorienta completamente l’opinione pubblica con i depistaggi, la morte di Pino Pinelli, l’arresto di Pietro Valpreda. Ha inizio la strategia della tensione.
 Nel settembre dello stesso anno era nato il CPM (Collettivo Politico Metropolitano) costituito da militanti della sinistra extra-parlamentare. Dal convegno CPM di Pecorile (settembre 1970) nasce il primo nucleo che darà vita alle Brigate Rosse. L’incontro viene organizzato da Franceschini, il quale di Margherita dirà: “L’impressione che ne ebbi fu di grande fiducia. Mara, che pur non appariva e non ci teneva a farlo, non era considerata da nessuno una figura secondaria. Anzi, era poi fondamentale nelle scelte concrete. Così la vedevo io, così la vedevano tutti.”
In questi convegni si parlerà per la prima volta di lotta armata e di clandestinità. Curcio nel suo Progetto Memoria scriverà: “Che lei abbia voluto l’organizzazione armata quanto me, se non più di me, è un fatto.”
Margherita scrive lunghe lettere alle sorelle e alla madre, alla quale racconterà di aver imparato molto più in pochi mesi a Milano che in cinque anni di università. Scrive di come la sua coscienza stia cambiando, di come Milano le appaia
Come un mostro feroce che divora tutto ciò che di naturale, di umano e di essenziale c’è nella vita. Questa società (…) ha estremo bisogno di essere trasformata da un profondo processo rivoluzionario. Tutto ciò che è possibile fare per combattere questo sistema è dovere farlo, questo io credo sia il senso della nostra vita.
Il gruppo decide di “passare all’azione” ma ci vuole una sigla. In memoria delle brigate partigiane decideranno di usare la parola “brigata” e Margherita proporrà “rossa”. Come simbolo verrà scelta la stella a cinque punte iscritta in un cerchio, la stessa utilizzata dai Tupamaros uruguaiani. Margherita sceglie il suo nome di battaglia: Mara.
Cominciano le prime azioni. Franceschini e la Cagol bruciano l’auto del capo del personale della SIT-Siemens, colpevole di aver fatto fotografare i partecipanti ai picchetti e di averli poi licenziati
Curcio, il teorico del gruppo, scrive il volantino di rivendicazione. I coniugi sono già conosciuti dalla polizia che va a perquisire varie volte la loro casa.
Franceschini decide di passare alla clandestinità affittando un appartamento sotto falso nome a Milano, in zona Ticinese, dove ospiterà la Cagol e Curcio.
Nei vari covi delle BR verranno ritrovate le norme di comportamento stilate dai tre in quel periodo. Tra le altre:
– la casa verrà frequentata solo da chi vi abita e conosciuta solo da un altro compagno;
– dovrà essere proletaria, modesta, pulita, ordinata e completamente arredata del necessario;
– le bollette vanno pagate subito;
– ogni compagno deve essere decorosamente vestito e in ordine nella persona.
Occorre procurarsi armi, meglio se fornite da ex Partigiani delusi dal Pci. Dirà Curcio: “consegnarci la pistola con cui avevano combattuto contro i fascisti, trent’anni prima, era come passarci un testimone”.
Nel 1971 Mara rimane incinta, ma perderà il bambino al sesto mese, dopo una caduta dal motorino. Nel 1972 il passaggio definitivo alla clandestinità e alla lotta armata li farà rinunciare per sempre all’idea di un figlio. In seguito all’occupazione delle case popolari di Quarto Oggiaro, operazione della quale era l’anima, Mara viene arresta per la prima e unica volta: rimane a San Vittore per cinque giorni. Coi genitori minimizzerà.
Cominciano le rapine, definiti “espropri proletari”, i “sequestri lampo”: nel marzo 1972 Idalgo Macchiarini, dirigente della SIT-Siemens, verrà fotografato con la pistola alla tempia e un cartello al collo. Il cartello recitava “Brigate rosse. Mordi e fuggi. Niente resterà impunito! Colpiscine 1 per educarne 100! Tutto il potere al popolo armato!”.
Anche in clandestinità Mara non riuscirà a tagliare definitivamente i ponti con la famiglia; lacerata dai sensi di colpa, nelle lunghe lettere si inventerà una vita parallela.
 La soffiata di un informatore (Marco Pisetta) fa scoprire covi e arrestare una trentina di brigatisti; la Cagol e Curcio si rifugiano in un casale nel Piacentino e capiscono che troppe cose non hanno funzionato, e che occorre riorganizzarsi profondamente. 
A Milano non possono più tornare, pertanto si trasferiscono a Torino formando una cosiddetta “colonna”.
 I genitori di Mara li scongiurano di lasciar perdere tutto, ma verrà loro risposto che la scelta è fatta ed è irreversibile.

Le BR alzano il tiro al “cuore dello Stato”.
 Il bersaglio è il giudice Mario Sossi, e il “piano” richiederà un anno e mezzo. Sossi viene sequestrato nell’aprile 1974 da una ventina di brigatisti a Genova, compresi Cagol e Franceschini. La prigionia di Sossi durerà 35 giorni e i giornali quasi non parleranno d’altro fino alla sua liberazione.
 L’8 settembre del 1974 Renato Curcio e Alberto Franceschini vengono arrestati a Pinerolo, denunciati da un infiltrato – Silvano Girotto, detto Frate Mitra.
 Vengono presi altri brigatisti, la Cagol rimane sola a portare avanti la colonna torinese. Si preoccupa di quello che i suoi genitori possono pensare adesso che Renato è in carcere. Scrive loro la lettera citata in apertura. Ma il gruppo è in difficoltà, perché molti sono in carcere. Mara pensa in grande e propone di liberare i prigionieri, a cominciare dal carcere di Casale Monferrato, dove Curcio è rinchiuso, che non sembra essere così inespugnabile. Moretti è perplesso e come lui altri. Ma dopo tre mesi di discussioni Margherita li convince. Farà arrivare a Curcio un biglietto: “il pacco con le maglie di ricambio arriverà domani”.
Il 18 febbraio 1975 Margherita, con una parrucca bionda e altri cinque uomini arriva al carcere di Casale. È giorno di visite, suona il campanello con un pacco in mano. Appena le viene aperto punta un mitra verso il piantone.
Entra nel carcere. “Renato dove sei?”
Curcio è al piano superiore, scende, verrà liberato senza sparare un colpo. Il «Corriere della Sera» commenterà: “Un’umiliazione dello Stato” e il generale Dalla Chiesa inveirà contro chi ha lasciato il capo delle Brigate Rosse in un carcere “di cartapesta”. Mara rimane a capo della colonna di Torino, Moretti a Genova e Curcio a Milano. Dopo una perquisizione verrà trovata in un covo di Torino la chitarra della Cagol dalla quale fino a quel momento non si era mai separata: ci ha rimesso il suo adorato strumento ma lei l’ha scampata. Le Brigate Rosse ora sono a corto di denaro e decidono di finanziarsi con un rapimento. Mara propone il nome di Vittorio Vallarino Gancia, industriale dello spumante: chiederanno più di un miliardo di lire. Nei sequestri le BR si sono date delle regole: no donne e bambini e l’ostaggio non si tocca, in caso di problemi lo si libera.
Il sequestro è deciso per il 4 giugno 1975, Gancia verrà portato in una cascina vicino a Canelli. Tre anni prima la Cagol aveva comprato per sei milioni e mezzo la cascina Spiotta che pensava strategicamente perfetta come covo, a un’ora di macchina da Milano, Torino e Genova. Aveva dato il nome falso di Marta Caruso e raccontato che si trovava in convalescenza. Lavorava nei campi e si faceva aiutare ad arare dai vicini: durante gli interrogatori descriveranno Margherita come bella, gentile e disponibile. “Con noi è sempre stata molto affabile e infatti da noi era molto stimata”. Ma la mattina del rapimento qualcosa va storto. La macchina che rapirà Gancia e lo condurrà alla cascina Spiotta (dove ad aspettarlo ci sono Mara e un altro brigatista mai identificato) al ritorno ha un incidente. Alla guida un giovane militante alle prime armi che, fermato dai carabinieri si rifiuta di fornire i documenti e si dichiara “prigioniero politico”. Mara sta riposando, ha fatto il turno di guardia di notte, il suo compagno, che avrebbe dovuto darle il cambio, si è appisolato e non vede avvicinarsi i carabinieri.
In tre bussano alla porta, l’uomo apre e inizia uno scontro a fuoco. La Cagol e il compagno tentano di scappare in auto ma c’è un quarto carabiniere, il quale non appena vede la macchina dei fuggiaschi spara. Mara scende, ha una ferita al braccio e una alla schiena, non è armata e grida “Basta, basta. Non sparate. Siamo feriti.” Il compagno scappa per i campi. Mara invece morirà con un colpo sparatole sotto l’ascella che le trapasserà il torace. Un colpo sparato per uccidere, affermerà qualcuno. Il carabiniere dirà che l’uomo si è fatto scudo con la compagna, ma il brigatista in un lungo resoconto scritto a Curcio, ritrovato poi in un covo, in merito alla dinamica dei fatti riferirà un’altra versione: mentre scappa si accorge che Mara non è con lui, si volta e la vede seduta nel prato con le braccia alzate a discutere con il carabiniere. Si allontana non potendo più fare nulla. Poi sente uno, forse due colpi secchi. Gancia intanto verrà liberato e vent’anni dopo in un’intervista rilasciata all’ «Espresso» dal titolo Grazie a Mara che mi salvò la vita racconterà che il Generale Dalla Chiesa gli fece leggere il rapporto particolareggiato che il compagno di Mara aveva scritto a Curcio. Le aveva gridato “Ammazziamo quel bastardo e andiamo via” ma lei gli aveva risposto “Lascialo che non c’entra niente”. “Capisce? In piena battaglia Margherita Cagol descritta da tutti come una sanguinaria, era stata lucidissima: mi ha salvato la vita e un minuto dopo è morta. Questa cosa mi sta sul cuore.”
Il riconoscimento del cadavere di Mara lo faranno le sorelle, ritrovando anche la cicatrice sopra il labbro che si era fatta da bambina. Due giorni dopo, il funerale a Trento. L’opinione pubblica la dipingerà come la donna che per amore è stata disposta a tutto, perfino a sparare, negandole quell’autonomia di pensiero e di iniziativa che ha invece caratterizzato tutte le sue scelte. Un mazzo di rose rosse verrà ritrovato davanti alla cascina Spiotta l’indomani della sparatoria e così il 5 giugno di ogni anno, per molti anni.


Da Enciclopedia delle Donne - Voce pubblicata da Sabrina Castoldi e Laura Saccà. Progetto Intrecci 2016, Rozzano

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