17.1.18

Politica e amore (Franco Fortini, aprile 1976)

Uno, che non è un ragazzo e ogni giorno si combatte la vita, è venuto a parlarmi di sue pene d’amore. È cosa tanto inconsueta, da meritare se ne discorra, credo, senza ironia. La nostra cultura non dà luogo all’amore infelice; dal secolo romantico ha accettato di occuparsi della sofferenza sentimentale imposta dalla società, ma si distrae dalla vista di chi ama non ricambiato. Eppure su quella situazione, in altri tempi, si sono costruite letterature intere. Gli antichi parlavano di follia. Noi facciamo quasi come loro. Diciamo che è sindrome nevrotica, da narcisismo gravemente regressivo, da mancato aggiustamento alla realtà. Le sofferenze di chi non è riamato, abbiamo tendenza a giudicarle indice di immaturità. I ciechi hanno fondate opinioni sugli orbi.
Non è un caso isolato. Ci sono nodi di affetti, luoghi e formule storiche delle passioni e della immaginazione, che stentiamo a ricostruire. Quelle pene d’amore abitano il museo del passato in compagnia del desiderio del chiostro, dell’idea di Arcadia, del patriottismo, che so, o della religione delle lettere. Ma chi ne ride ignora che la storia non rifiuta mai qualcosa per sempre e che l’unica memoria veramente necessaria è quella che esalta il nuovo nell’atto in cui vi riconosce i lineamenti dell’identico.
Intanto la «vecchia storia» di cui parlava Heine, dove uno ama una, che ama un altro, continua a «spezzare il cuore» alla gente; ma la gente non ne parla perché si sa riprovata. I giovani (come sempre) dalla realtà del cinismo borghese hanno assunto le parole del cinismo, le recitano e fingono di credere che l’amore sia una invenzione cristiano-umanistica, una trappola ideologica; onde, a chi ci casca, ben gli stia. Eppure il delicato fossile che uno, giorni fa, è venuto a porgermi, la situazione psicologica dell’amore non ricambiato, testimonia oggi di qualcosa di essenziale: «Nell’assurdità del rifiuto» (trent’anni fa scriveva Adorno) l’innamorato respinto «comincia a rendersi conto della non verità di ogni realizzazione puramente individuale». D’altronde, «chi ama in più si mette» (in una società fondata sul rapporto di scambio) «dalla parte del torto» e «degenererà in crudeltà possessiva o fantasia autodistruttiva».
Chi, per il non-riamato, parla solo di narcisismo vuole invero fargli accettare la legge della realtà ossia la realtà della legge fondata sul valore di scambio. Invece chi ama non solo vuol essere riamato ma, anche se non lo sa, vuol essere amato sempre e da tutti e dunque amare tutti e sempre. D’altronde, anche l’amore ricambiato e felice, se si accompagna alla secessione dal mondo, alla cosiddetta solitudine in due, se non osa rischiare il proprio piacere di fronte alla nemica «realtà» e al suo «principio», si condanna al deperimento. Abbiamo tutti sorriso, anni fa, degli amori che nascevano nelle occasioni «contestatarie»; ma avevamo torto. Il rapporto amoroso, che chiede il riconoscimento del sé più oscuro, e lo offre, tendeva a misurarsi immediatamente sulla propria socializzazione; anche se quella — per la sete di sacrificio e autonegazione che tormentava quei giovani — finì col configurarsi, paradossalmente, come una fuga dall’amore e dalla stessa identificazione di sé. (La dialettica è come il sole, se la guardi direttamente ti acceca ma se aspetti che passi viene notte.) Credevano di poter pervenire alla padronanza totale di sé prevista nel comunismo. Non sapevano che, nel comunismo, la padronanza di sé esiste negli altri e che il «controllo sociale» non è quello di un partito. Sono regrediti quasi sempre, senza saperlo, alla separazione fra volontà «razionale» e corpo-macchina che era stata la resezione chirurgica operata dall’illuminismo e dal sadismo borghesi, nel secolo XVIII.
In che senso «il respinto diventa uomo» (Adorno) e l’amore «sempre sciocco, ingannato, soverchiato» (Hólderlin) sia segno di una condizione non solo individuale; e perché nella concessione, come nel rifiuto, d’amore si celebrano la libertà e la grazia (ossia qualcosa che non può essere stabilito mai in diritto e in accordo): ecco una riflessione che potrebbe non essere inutile. Se i meccanismi dell’amore accordato o rifiutato sono quelli medesimi di ogni mancato riconoscimento o adempimento, allora bisogna onorare i giovani che negli anni Sessanta anche in forme inautentiche e disperate hanno cercato e osato socializzare nei loro gruppi i rapporti interpersonali. Anche quei loro errori sono stati infinitamente più ricchi della solitudine non voluta e della infelicità improduttiva. Non appena avremo il coraggio di affrontare sul serio il muro del rischio, anche dai modi di consumare felicità e infelicità bisognerà ripartire.
Chi era venuto a parlarmi era un operaio di fabbrica, immigrato dal sud, militante sindacale. «Dico che se vogliamo la felicità degli altri, dobbiamo poter volere anche la nostra», mi spiegava, dalla sua non speranza. Si poteva intendere che non chiedeva per sé altro che sostegno ad una identità vacillante e in pericolo: ma non fa questo anche la lotta operaia? Che altro è quel che chiamiamo solidarietà e unità? Lotta per un riconoscimento di tutti entro cui sia — non prima o altrove — il riconoscimento di lui, di me, di te.
Per tutta la vita, ora qua ora là, ho incontrato persone che questo avevano inteso: il riconoscimento non può mai avvenire direttamente, non è mai nato dalla volontà, la stretta anche più concorde di amanti beati può rilevarsi tormentosa e mortale se non ha l’arte di «produrre qualcosa con le capacità dell’altro» (Brecht); se non fa accrescere nell’altro (negli altri) capacità di svolgimento, di azione e futuro; contro un margine costante d’ombra e dolore, e guardandolo fisso.


“Corriere della sera”, 14 aprile 1976; poi in Insistenze, Garzanti, 1985

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