13.1.18

Genova 1979. L'“Otello” di Carmelo Bene spiegato da Edoardo Sanguineti

Nell'Otello secondo Carmelo Bene non si muore, non muore nessuno. La “sospensione del tragico”, che è un po’, dichiaratamente, la chiare interpretativa dello spettacolo, è motivata con il fatto che «tutto è già avvenuto». Non si rappresenta, si evoca. Ed è anche un modo di recuperare e rifondare la borghese impossibilità del tragico, di tornare a denunciarla in modi nuovi. E di ripuntare, così, sopra la nostalgia del tragico, ancora. Che qui è doppiala sopra la nostalgia dell'onore, nel senso forte, e non certo in quello coniugalmente meschino della parola. Sopra la nostalgia dello stile.
A discorrerne con Bene in persona, che ha portato l'Otello qui allo Stabile di Genova, per le ultime, se non proprio le ultimissime (lo aspetta un recupero a Jesi, se ricordo giusto) repliche, la rete delle sovradeterminazioni, cioè degli intrichi tentatici e simbolici che si coagulano in ogni gesto e parola e suono, si dispiega inesauribile e avvolgente. In antitesi a un teatro rappresentativo, che mira a chiudere, a concludere comunque poco importa, se in registro comico o tragico, in lieto fine o in catarsi, la sospensione di Bene è, in primo luogo, una sublime arte di deliberata inconcludenza. La nostalgia, come memoria, si colloca al polo opposto del desiderio. Si risolve in pulsione di morte. Ma, negazione di eros, Otello, precisamente come rivisitazione funerea, è insieme negazione di Thanatos. L'impossibilità della catarsi risolutiva è frustrazione perpetua dinanzi al sogno di morire.
Tutto questo può risultare assai più limpido a chi abbia in mente le conclusioni di Alessandro Serpieri, che l’anno scorso ha pubblicato, proprio all’insegna dell’eros negato, |per le edizioni milanesi del Formichiere, la redazione definitiva della sua minuziosissima analisi del testo di Shakespeare, come «psicoanalisi di una proiezione distruttiva». A guardare Bene, servendosi di Serpieri, non già come guida, il che risulterebbe assolutamente deviante, ma come reagente, si afferrano subito alcuni nodi decisivi. Si comprende, anzitutto, che la sospensione, la volontà di «sospensione» si avventa, in Bene, sopra un dramma, anzi il dramma anticatartico per eccellenza. Ma si comprende anche come, dalla tragedia dell'invidia, nell'accezione radicalmente kleiniana della parola, che scavalca la superficiale apparenza di una semplice tragedia della gelosia, e porta Jago al centro, si trapassi d'un colpo, qui all'autoanalisi fantasmaticamente monologante, per questo Otello, non tanto centrale, quanto unico, anche con implicazione stirneriana. Del quale Cassio e Jago, ectoplasmi esteriorizzati del soggetto, sono, alla lettera, luogotenenti, cioè proprio tenenti luogo, stadi dell'Interiorità che si manifestano scenicamente, in una scena psichica, momenti che l'Io espone, esibizionisticamente, e piuttosto pone, fuori dell'Io, e piuttosto all’interno diviso dell’Io, in ogni raso perpetuamente riassorbendoli in sé. Come sempre, in Bene, la partitura testuale è un monologo distribuito, come su diversi livelli, su voci diverse. su onirici accenti distinti.
Per stringere lutto in una formula, di contro a un Jago alla Serpieri, che inocula proiettivamente in Otello le proprie pulsioni profonde, abbiamo qui un Otello che porta in sé un Jago, e che se lo oggettiva in immagine e in figura per conoscerlo, per conoscersi, per sperimentarlo come una fase, come un aspetto del proprio vissuto. E Otello rimane sì, naturalmente, il diverso. Ma qui il conscio che cede all’inconscio, il simbolico che si apre all’immaginario, la censura che crolla sotto la pressione della libido, ma al di là del principio del piacere, e dunque funebremente (oltre che al di là del bene e del male), non sono più gli effetti di un’invidia vitale, storicamente determinata, e antropologicamente ideologizzata, ma rappresentano, in universale, la condizione umana. E delegato a tanto è il poeta come diverso, o come Carmelo Bene in persona, che costruisce il suo Otello come un dopo-Otello, appunto, come una retrospettiva fenomenologia, memoriale e analitica, dcll'artista come unico.
Certo, il luogo critico è Desdemiona, come in paradigma, ma degradata nel suo manifestarsi entro l’orizzonte della realtà, nella sua praticabilità esistenziale. «Con la presenza della donna sono entrati in campo la famiglia, i bambini, le corna », dichiarava Bene in una intervista, in gennaio. Il suo esistere, infatti, è già, immediatamente, tradimento del fantasma che di lei si coltiva nel profondo. Se l’archetipo è, leopardianamente, la donna che non esiste, l’eterna idea del poeta, la donna non può entrare in scena che come femmina, negazione dell’archetipo. Cosi, intanto, la autoanalisi è regressiva. Il soglio dell'idea è il rifiuto della maturità. Anche per Bene, alla fine, il vero educatore è Schopenhauer. Perché la rappresentazione teatrale, negandosi come rappresentazione, rivela come rappresentazione il mondo. La missione teatrale di Carmelo è la pedagogia del dolore innocente, proteso verso un pessimismo con dignità.
Nel grande candore che investe la scenografia e i costumi emergenti da nere tenebre, e che sbianca infine lo stesso protagonista, in un giuoco di epidermidi marchiate e annerite dai gesti e dai contatti, innocenza e morte si fondono simbolicamente. Il bianco è ignoranza e lutto. Il lenzuolo di eros negato è lo «tesso lenzuolo di Thanatos. Più ancora irrecuperabile che inattingibile. E si comprende che questa seconda fase della ricerca scenica di Bene si blocchi, proprio. sopra una «sospensione». La poesia come diversità è la poesìa, per natura, dell'inconcludenza. Dall’approdo di questo Otello negato. volgendo addietro lo sguardo sopra l’itinerario globale di Bene, si ottiene il ritratto dell'artista come giovane unico.
Sopra il grande letto erotico e funerario, dove i fantasmi del soggetto si rendono infine visibili e ossessivi. e dove il mitico fazzoletto shakespeariano s'innalza a spello onnicomprensivo, velo fantasmatico del corpo chiuso tra amore e morte, e chiuso a amore e a morte, quasi afferrandosi all'estrema zattera dell'estetica, tutti i valori, dignità, decoro, stile, onore, tentano un’ultima sortita contro la dialettica, che minaccia di sciogliere insieme quella diversità e quella nostalgia. Quando l’estetica non vuole morire, non può morire, non sa morire, ricorre a quella terapia che Bene riassume nella speranza che la malattia si curi attraverso la malattia. E respingendo la qualifica di decadente, egli non scatena, propriamente, il meccanismo freudiano della denegazione. Quella che è in giuoco, all'opposto, e la sua possibilità di trasparenza critica, analitica appunto, in quei modi di narcisismo psicotico che sono, in un simile ordine, gli unici sperimentabili, per l'unico. Nella notte di questo Otello, la civetta che si leva in volo canta, con voce di cigno, candidamente perverso, un canto che sogna di ritornare eternamente.


“l'Unità”, 17 aprile 1979

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