23.11.18

Firenze 1666-1713. Ferdinando de’ Medici, un capitolo dialettico della storia del gusto (Claudio Gulli)

Giovanni Battiata Foggini . "Le Grand Prince", Ferdinando d' Medici (1683)
Le preferenze di un collezionista mecenate
Non sarà stato facile avere per padre uno dei sovrani più bigotti della storia, e per madre una cugina libertina di Luigi XIV, che finisce col rinchiudersi in un convento a Montmartre per ricever più comodamente gli amanti; sta di fatto che da Cosimo III e Marguerite-Louise d'Orléans nel 1663 nasce un principe che in termini di collezionismo e committenza non teme confronti con nessuno: Ferdinando de' Medici. Fra le pareti di Palazzo Pitti, un gusto per la pittura poteva germogliare solo nutrendosi di sante e madonne lucide e smaltate, quelle di Carlo Dolci, il pittore più devoto della Firenze del Seicento, prediletto del padre. Meglio allora da giovane migrare in villa e a Pratolino organizzare un'opera in musica all'anno, come fa Ferdinando dall'età di diciassette. Più o meno gli stessi di quando si fa ritrarre da Giovanni Battista Foggini, in un busto commissionato dalla pachidermica cattolicissima nonna, Elisabetta Della Rovere (dal Metropolitan) - e trionfano toni da ufficialità berniniana: svolazzo del marmo nel panneggio, chioma a cascata sopra un pizzo ben traforato, fiocco sotto il mento, sguardo da truce calcolatore. Molto più al naturale è il principe se lo vediamo ritratto in mezzo ai suoi musici, e la gentilezza viene da un pittore orientato verso Venezia quale Antonio Domenico Gabbiani.
Quanto più amabile per un giovane ansioso di libertà dovesse rivelarsi la laguna lo scopriamo scartando le prime preferenze pittoriche di Ferdinando: un fiammingo, Livio Mehus, e un tedesco, Johann Carl Loth: uno parte da premesse cortonesche, vale a dire del grande nome neoveneto del barocco, e piano piano, ricorrendo a Tiziano, arriva a un tenebrismo che pratica improvvisi accecamenti di tocco; il secondo costruisce volumi attraverso macchie, dimentico ormai di ogni possibile bella linea. ‘Una setta di tenebrosi': così li definiva Lanziun secolo dopo, ma non si creda che il principe parteggi esclusivamente per costoro. Ci sono i più giovani, quelli con cui ci si intende meglio e subito: Domenico Tempesti: uno che sa come arrivare, con la delicatezza del pastello, ad addolcire la psicologia di chiunque; o Bartolomeo Bimbi, che importa da Roma il genere della natura morta; o lo scultore Balthasar Permoser, un virtuoso del marmo di cui in mostra si presenta un'inedita Pallade.
Quando Ferdinando si sposa, con la quindicenne Violante di Baviera, la mai amata ‘tedeschina' (1689), è la volta di rimodernare la residenza dei granduchi: a Pitti gli progettano un ‘Gabinetto segreto' sopra l'alcova di rappresentanza, e l'intaglio di fogliami giocosissimo della grata in legno dorato è sopravvissuto ai tempi dei Lorena, dei Bonaparte e dei Savoia. Di tutto il resto dei lavori a Pitti invece resta poco e niente, ma il cantiere dei ‘Regii mezzanini' comprendeva venti vani sopra il piano nobile, fra Ferdinando de' Medici capitolo dialettico della storia del gusto cui saloni, ricetti, gallerie, una sala per la collezione dei bozzetti, gli appartamenti di Violante, affrescati daAlessandro Gherardini, un pittore talmente libero che presto litiga col principe.
Antonio Domenico Gabbiani, Ritratto di Musici con il "Gran Prince" Ferdinando de' Medici (1683)
Il vero prediletto, lo abbiamo accennato, è un altro: quel Gabbiani che dipinge come fosse tutto morbido e pacifico, come emerge da meravigliosi studi a matita su carta cerulea, per la volta della Sala della Meridiana al pian terreno, dove Il Tempo esalta la Scienza e calpesta l'Ignoranza (1692). Ma a corte circola anche la cultura del macabro ceroplasta siracusano Gaetano Zumbo: per lui il tempo va indagato come allegoria della corruzione dei corpi, e infatti, accanto al solito vecchio barbuto che personifica, campeggiano donne in putrefazione, corpi madidi e scheletri di bambini: un iperrealismo dell'osceno, nel linguaggio colloquiale di un presepe. Forse queste opposizioni si spiegano nella dialettica fra un padre ossessionato dalla religione e un figlio rigogliosamente libertino. Uno scultore dalla parte di Ferdinando è Massimiliano Soldani Benzi, e ritorna la festa dei sensi che dall'autunno ti conduce alla primavera, nelle Allegorie delle stagioni donate dal principe a un cognato bavarese (i bozzetti in terracotta ante 1708, i bronzi 1709-'11), ma talvolta negli occhi dei putti la vita si spegne un po'.
Ma non si creda nemmeno che il gusto di Ferdinando sia tutto per i suoi contemporanei. Il principe sa bene che la storia è una foresta di dipinti da collezionare e, colpo dopo colpo, arricchisce la pinacoteca di palazzo con pale di grido. La razzia colpisce soprattutto le chiese del granducato e il caso più eclatante e celebre riguarda la Madonna del baldacchino di Raffaello, prelevata nottetempo dalla chiesa di San Francesco a Pescia, dietro pagamento al preposto e agli eredi del patronato della cappella, supervisore il Gabbiani. I pittori ferdinandei erano dunque in prima linea durante le operazioni: ed è questa la sala che rimarrà più impressa dell'entusiasmante mostra agli Uffizi Il Gran Principe Ferdinando de' Medici (1663-1713) Collezionista e mecenate, a cura di Riccardo Spinelli (catalogo Giunti-Firenze Musei, apertafino al3novembre); quella in cui vedi alcune opere incamerate da Ferdinando accanto alle copie di quei pittori che stavano dietro ai colpacci. Perché è ora che gli Andrea del Sarto, i Cigoli,i Parmigianino e i Lanfranco diventano materia viva per i Gabbiani o i Cassana: ora che questi devono con le loro mani copiarli, restaurarli, ingrandirli. Il momento museale, per questa generazione, è quasi un'imprevista accademia. Altro capolavoro collezionistico del principe è il ‘Gabinetto d'opere in piccolo', una sala della villa di Poggio a Caiano dove erano ospitate, a tappezzeria fino alla volta, solo opere della grandezza di un braccio (circa 60 cm). Di quei centosettantaquattro dipinti, in mostra si è intelligentemente tracciato uno schema, a volte riempito dall'opera conservata, a volte lasciato con la silouhette dell'opera mancante, secondo quanto riporta un grafico settecentesco del gabinetto. Colpo di coda del gusto di Ferdinando è la commissione di una volta ad affresco a Sebastiano Ricci per il pian terreno di Pitti (1707): e l'edonismo che un Gabbiani mai avrebbe potuto raggiungere trova un suo posto fra i cieli di palazzo. Il suo gusto approda,nel primo decennio del secolo nuovo, a nomi che resteranno nell'olimpo settecentesco italiano: Ricci, su tutti, ma anche Francesco Trevisani, Giuseppe Maria Crespi e Alessandro Magnasco. E quella sfumatura che in pittura declina la parola libertà verso orizzonti licenziosi, azzurro-centrici, guasconi, è la stessa che porta Ferdinando ad abbandonare la vita come la Venere di Ricci fa col suo Adone, colpito da una sifilide contratta nell'amata Venezia.
Titoli di coda: ci ha convinto tutto, ma soprattutto l'attenzione alle cornici, alla riproduzione degli ambienti palatini, alla ricostruzione delle feste con tanto di apparati effimeri. Non si può far mistero dei debiti che chi studia bene questo periodo automaticamente contrae con due inglesi: uno storico, Harold Acton, con il suo The Last Medicis (1932, traduzione Einaudi: 1962), troppo spesso ingiustamente considerato un raccoglitore di pettegolezzi - è invece uno che ricostruisce gli intrecci politici senza dimenticare le psicologie -, e uno storico dell'arte, Francis Haskell, cui si deve, in Patron and Painters (1963, edizione Sansoni di tre anni dopo), un'importante apertura su Ferdinando ‘collezionista e mecenate': prima di lui non si afferrava quanto siano personalità come queste a muovere il sole della storia del gusto.

Alias - il manifesto, 20 ottobre 2013

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