26.11.18

“Ultimi fuochi di Resistenza”. Un esule della Volante Rossa racconta (Tonino Bucci)


«Ho avuto una grave condanna, in passato». La voce, tranquilla e bonaria, è quella di un anziano signore. Si conoscono per caso al telefono, lui - l'anziano signore - si chiama Paolo Finardi, mentre dall'altra parte del cavo c'è Massimo Recchioni, responsabile dell'Anpi in Repubblica Ceca. Si incontrano dopo qualche giorno - siamo nel mese di marzo 2006 - al tavolo d'un caffè di Bratislava, «all'ombra dei platani». «Cosí sono venuto a conoscenza della lunga e incredibile storia che vado a raccontare» e che di fatto Massimo Recchioni ha raccontato nel libro Ultimi fuochi di Resistenza. Storia di un combattente della Volante Rossa, pubblicato da DeriveApprodi in uscita in questi giorni (con prefazione di Cesare Bermani, pp. 160, euro 14).
Andiamo con ordine. Paolo Finardi accetta d'essere intervistato dopo aver taciuto per quasi sessant'anni. È un racconto in prima persona, senza note aggiuntive, a eccezione del saggio introduttivo di Cesare Bermani, il primo storico che ha ricostruito da sinistra la vicenda della Volante Rossa. Paolo Finardi, alias "Pastecca", comincia dalle origini, dal paese natío, Castel Rozzone e di quando tutta la famiglia, per sfuggire alle ritorsioni dei fascisti, si trasferisce a Milano. Qui Paolo, poco piú che quindicenne, manovale in una ditta di costruzioni, si avvicina alla Resistenza. Entra a far parte della 118ma Brigata Garibaldi. Porta in giro per la cittá messaggi nascosti nel sellino della bicicletta, fa il palo durante le azioni contro i tedeschi, fino a che non prende a partecipare in prima persona.
Il pensiero vola in particolare a Eugenio Curiel, fisico triestino, ebreo e comunista, chiamato a dirigere l'Unitá clandestina e ucciso alla fine del febbraio '45 in un agguato dai repubblichini. «Ricordo che fummo tutti scioccati da quella notizia. Era davvero una brava persona e incuteva coraggio a molti di noi, soprattutto ai piú giovani». All'assassinio di Eugenio Curiel, vedremo, saranno in qualche modo legate le scelte e le sorti personali di Paolo Finardi.
Dopo il 25 aprile si apre una fase di incertezza. Tra le diverse forze politiche che hanno animato la Resistenza si generano sospetti reciproci. «Non fummo i soli a non consegnare le armi. Ci arrivavano voci di gruppi di partigiani che se le erano tenute, e in molti casi si trattava di partigiani "bianchi". Se le avevano tenute, un motivo ci doveva pur essere. Ma sicuramente lo scopo per cui loro e noi ce le eravamo tenute non era lo stesso... Morale della favola, a eventuale difesa non consegnammo praticamente nulla». Sono anni di intensa attivitá politica delle massa, scrive Cesare Bermani nel saggio introduttivo del libro. Le disposizioni dei partiti a riconsegnare le armi furono in grandissima parte disattese. La storiografia di sinistra è stata fin troppo subalterna, scrive Bermani, sulla Volante Rossa perché ha rinunciato a ricostruire la storia sociale di quegli anni. Nel Pci «non esisteva neanche una vera e propria alternativa organizzata alla linea di Salerno, ma vi era in esso un marcato atteggiamento di preoccupazione per quanto poteva accadere in quell'Europa del dopoguerra e nel Paese. C'era allora nell'aria il pericolo di un colpo di Stato monarchico, operavano squadre armate fasciste e qualunquiste, e, anzi, tutti i partiti, in parallelo all'organizzazione politica, disponevano di una struttura militare, non solo per difendersi dai fascisti ma anche perché l'ala conservatrice della Resistenza diffidava di azionisti, comunisti e socialisti, e viceversa». Anche la Dc incamera armi, quelle dei partigiani bianchi e quelle mandate dagli americani a ridosso delle elezioni del 18 aprile 1948.
Ma non c'è quella Gladio rossa di cui gli americani parlano giá a partire dal '46 e che servirá da alibi per la creazione dell'unica vera Gladio, la struttura occulta della Nato. «La posizione del Pci - scrive ancora Bermani - in materia di armi puó essere cosí sintetizzata: se la gente per conto proprio e spontaneamente vuole accantonare le armi sono faccende sue, inclusi i rischi che corre e non sono problemi di nessuna organizzazione di massa. E i depositi di armi non debbono avere niente a che vedere direttamente con l'azione politica e il comportamento politico ufficiale né del Partito comunista né delle varie organizzazioni di massa sorte attorno a lui».
Timore di colpi di stato monarchici, gruppi neofascisti in formazione, armi americane e un forte conflitto sociale, nella fattispecie all'interno delle fabbriche del nord. Questo è lo scenario in cui agisce la Volante Rossa. Ufficialmente è un circolo ricreativo-sportivo alla Casa del popolo di Lambrate dove si organizzano gare, balli ed escursioni. «Ma era anche la sede di un gruppo - torniamo al racconto di Paolo Finardi - che vigilava su quanto stava continuando a succedere anche in tempo di pace. Nei tribunali venivano interrogati molti fascisti, ma quasi tutti venivano rilasciati e si contavano sulla punta delle dita i casi in cui erano messe sotto processo personalitá di spicco del regime. Ancora meno frequentemente ci si occupava di quelli che si stavano riorganizzando. Eppure lo facevano quasi alla luce del sole e noi li conoscevamo quasi tutti: sapevamo chi erano, dove si incontravano e spesso sapevamo anche quali erano i loro progetti». La Volante Rossa intensifica le azioni nel '47 mentre stanno nascendo i gruppi fascisti delle Sam (squadre d'azione Mussolini) e delle Far (fasci di azione rivoluzionaria), prodromi dell'Msi. Nel gennaio del '49 Finardi partecipa a un doppio agguato: nei confronti di Felice Ghisalberti, responsabile dell'uccisione di Eugenio Curiel, e di Leonardo Massaza, una vecchia spia dell'Ovra, la polizia segreta fascista.
Da questo momento la vita di Finardi cambia. La polizia stringe il cerchio intorno a lui. Non resta che la fuga all'estero, oltre cortina. Il partito si fa vivo nella veste di due funzionari che gli fanno un discorso che piú chiaro non si puó. «Il partito non è obbligato a darti una via d'uscita, chiaro? Quindi, il partito ci pensa nonostante non abbia chiesto a voi della Volante Rossa di andare in giro a fare i giustizieri. Se qualcuno ti ha detto che c'era un livello di sicurezza non siamo stati certo noi! Il partito sa che queste cose succedono ma non le organizza affatto, anzi non ne sa proprio un cazzo, e questo dovevi averlo chiaro fin dall'inizio». L'alternativa alla fuga all'estero sarebbe il carcere. Paolo Finardi sceglie la Cecoslovacchia. Ci arriverá con un viaggio travagliato, prima attraverso le montagne verso la Svizzera, poi in Austria, infine a Praga. Qui incontrerá altri fuoriusciti per gli stessi motivi politici suoi, anche se in mezzo c'è qualcuno che ne ha approfittato per attuare vendette personali, «ma si riconoscevano subito». È un lungo dopoguerra. Finardi frequenta scuole di partito e si mette a fare i lavori piú svariati, nelle cooperative agricole come in fabbrica. Trascorre anche un periodo nella Cuba rivoluzionaria di Fidel Castro e del Che. È testimone della Primavera di Praga. «Rivisitando gli episodi accaduti in quei mesi col senno di poi, mi resi conto che molti di quelli che vedevano in Dubcek un innovatore erano davvero comunisti. Ma allora le cose non erano affatto cosí chiare. C'erano presumibilmente forze reazionarie, e non solo interne, che strumentalizzavano gli eventi. Quella situazione, soprattutto se seguita da altre analoghe, minacciava di diventare una mina vagante, una spirale estremamente destabilizzante». Cosí le truppe del Patto di Varsavia invasero il paese. Sta di fatto peró che «ci accorgemmo che lo strappo tra dirigenza e masse popolari ormai si era consumato. E avremmo capito solo dopo che proprio quello fu l'inizio della parabola discendente del sistema socialista cecoslovacco».
La fine di questo esilio arriverá solo piú tardi con l'elezione del partigiano Sandro Pertini a Presidente della Repubblica. Paolo Finardi ottiene la grazia. Proprio quando in Italia la lotta armata è all'apice. E qui si affaccia un altro mito, quello del filo rosso tra l'esperienza della Volante Rossa e la nascita delle Br. È vero che nel linguaggio delle Brigate rosse torna spesso il motivo della Resistenza interrotta o, di piú, della Resistenza tradita, delle aspirazioni a una rivoluzione sociale che non arrivó mai e di cui la Volante Rossa è stata nel tempo trasformata in simbolo. Eppure alle orecchie di chi della Volante Rossa fece parte davvero l'analogia non funziona. «Dall'Italia - racconta ancora Paolo Finardi - ci arrivavano notizie a dir poco sconcertanti. Il paese si trovava immerso fino al collo in quelli che venivano definiti gli anni di piombo. Un clima irrespirabile, non da guerra di liberazione come era stato trent'anni prima. Infatti le condizioni storiche e politiche erano completamente diverse da allora. Noi eravamo nei luoghi di lavoro, lí avevamo le nostre basi, ci vivevamo, eravamo radicati nei quartieri, seduti a ogni muretto, presenti in ogni capannello, in tutte le fabbriche sorgeva il bisogno di trasformazione in senso socialista della societá e del superamento delle classi. Invece, dal clima di lotte fratricide che si stavano consumando a trent'anni di distanza, la grande assente sembrava proprio essere la classe operaia». Ma neppure corrisponde a vero nel racconto di Finardi la tesi dei contatti tra brigatisti, vecchi partigiani fuoriusciti e servizi segreti cecoslovacchi. «Io vivo qui dal 1949 e ho sempre mantenuto stretti rapporti con i compagni di Praga. Se ci fosse stata la presenza di brigatisti italiani per esercitazioni paramilitari beh... credo proprio che almeno uno, dico solo uno, tra i compagni piú informati e meno scemi di noi se ne sarebbe sicuramente accorto, o comunque ne sarebbe venuto a conoscenza, di persona o anche solamente per sentito dire. E invece no. Nulla del genere».
Concludiamo con le stesse parole di Paolo Finardi. «Chissá, piú di una volta ho pensato che se anche l'Italia avesse provato a fare i conti col suo passato con processi veri e condanne esemplari dei colpevoli, molto probabilmente molti di noi non avrebbero fatto le scelte che hanno fatto. Per quello che riguarda me, sono sicuro che non ci sarebbe stato questo Paolo Finardi se coloro che erano preposti avessero fatto giustizia».

Liberazione, domenica, 22 febbraio 2009

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