23.11.18

Dante, un cantiere aperto. Così la Divina Commedia si trasforma nel corso dei secoli (Alessandro Barbero)


Apprendere che il testo della Commedia non è unico e indiscutibile, ma che a seconda delle edizioni ci si può imbattere in letture diverse, è stata per me, tanti anni fa, una di quelle scoperte inquietanti che portano gli adolescenti a mettere in discussione il mondo granitico e legalitario dell’infanzia. Mi era capitata tra le mani, per una ricerca scolastica, l’ottocentesca Vita di Dante di Cesare Balbo, e lì a un certo punto erano citati i versi iniziali del poema. Solo il primo era uguale a quello che conoscevo io: «Nel mezzo del cammin di nostra vita». Il secondo e il terzo dicevano «i’ mi trovai per una selva oscura / che la diretta via era smarrita».
Io quei pochi versi li avevo studiati da poco e li sapevo a memoria, ma nel dubbio andai a controllare sull’edizione che usavamo al liceo: lì c’era scritto «mi ritrovai per una selva oscura, / ché la diritta via era smarrita». Ora, pazienza per «i’ mi trovai» anziché «mi ritrovai», ma la via era diretta o diritta? Faceva, mi parve, una bella differenza! La professoressa, a cui andai a chiedere lumi, mi parlò di tradizione manoscritta, di lezioni divergenti e di edizione critica, tutte cose che oggi, visto il mestiere che faccio, mi paiono addirittura ovvie, ma che allora erano nuove e aliene. Mi rimase un fastidio di fondo: com’è possibile che noi non sappiamo esattamente che cosa ha scritto Dante?
In seguito avrei scoperto che questa è la condizione normale di qualsiasi testo antico o medievale, tramandato da manoscritti in cui era inevitabile che s’introducessero delle varianti, per inavvertenza o per arbitrio del copista. Sono arrivati fino a noi più di 800 codici medievali della Commedia, ma nessuno di mano di Dante, di cui non possediamo neppure una riga autografa. La foresta delle varianti è perciò infinita, e non parlo soltanto di quelle puramente grafiche, che non hanno grande importanza, perché gli usi cambiano col tempo. Oggi è possibile vedere in rete molti di questi codici, e scoprire con un clic che un manoscritto copiato da Francesco di ser Nardo da Barberino verso la metà del Trecento, pochi anni dopo la morte di Dante, cominciava così: «Nel meçço del cammino di nostra uita / mi ritrouai per una selua obschura / chella diritta via era smarrita», mentre quello trascritto, sempre a Firenze, da Filippo Villani alla fine del Trecento cominciava così: «Nel mezzo del camin di nostra uita, / mi ritrouai per una selua oscura, / che la diricta uia era smarrita». L’ortografia non era ancora fissata; la via, però, è sempre diritta, e infatti oggi tutte le edizioni leggono così.
Ma non è sempre così facile. In genere per stabilire il testo critico di un’opera si analizzano tutti i manoscritti e se ne stabilisce la genealogia, scoprendo, attraverso mille indizi, quali sono i più antichi e autorevoli, e quali sono stati copiati più tardi. Nel caso della Commedia, però, un secolo e mezzo di discussioni ha convinto gli studiosi che è impossibile stabilire una cronologia delle varianti tramandate, e risalire alle più antiche: la contaminazione, osserva il dantista Enrico Malato, è «infiltrata in profondità in tutto il territorio del poema».
Sembra di sentire un medico che descrive l’avanzare della patologia in un corpo infermo, o un militare che assiste al proliferare dei vietcong o dei mujaheddin nel territorio che dovrebbe difendere; e senza dubbio lo specialista di Dante si sente in trincea. Non c’è arma del suo arsenale che permetta di affrontare con sicurezza impersonale il problema dello stabilimento del testo: deve mettersi in gioco lui, in prima persona, e decidere in base alla propria interpretazione. Se Dante, quando incontra Virgilio, abbia esclamato che la fama del Mantovano durerà «quanto ’l mondo» oppure «quanto ’l moto» (e cioè, intendiamo, il moto delle sfere celesti) non lo sapevano già i commentatori antichi, e oggi lo può decidere soltanto la sensibilità dello studioso.
Perciò fa notizia ogni nuova edizione della Commedia che proponga novità. Malato, che è uno dei massimi dantisti viventi, ha appena pubblicato in anteprima, nell’elegante collana supertascabile dei «Diamanti», il frutto di molti anni di lavoro, in attesa di pubblicarne l’editio maior, prevista in ben cinque tomi entro il 2021, per l’anniversario della morte di Dante. L’autore avverte con modestia che non si tratta di un nuovo testo critico, pretesa velleitaria, dice, rispetto alla solidità del testo stabilito mezzo secolo fa da Giorgio Petrocchi. Ma in realtà le novità sono molte. È nuova la punteggiatura, adeguata agli usi moderni: perché non c’è parte della nostra scrittura che cambi più vistosamente col trascorrere delle generazioni. È nuovo l’abbandono di grafie come «bascio», ricondotto definitivamente al nostro bacio: e così finalmente Francesca ricorda che Paolo «la bocca mi baciò tutto tremante» (endecasillabo memorabile, che bisognerebbe opporre a quelli che pretendono di «tradurre» Dante in italiano moderno).
Ma le varianti più suggestive sono quelle in cui cambia un’intera parola. Il battesimo, spiega Virgilio a Dante nel IV dell’Inferno, «è porta della fede che tu credi»; così, almeno, credevamo finora. La verità è che in tutti i manoscritti c’è scritto «parte», tranne uno solo in cui la parola è stata corretta arbitrariamente in «porta»; e che è stata l’Accademia della Crusca, nel 1595, a imporre quest’ultima lezione, pensando alla definizione scolastica del battesimo come «porta dei sacramenti», mentre tutti i commentatori coevi a Dante o di poco posteriori davano tranquillamente per scontato che la lezione fosse «parte». In questo caso Malato osserva che per cambiare una lezione universalmente condivisa dalla tradizione manoscritta ci vuole qualcosa di più di un’ingegnosa ipotesi, per quanto questa possa piacerci.
Ma può anche capitare il caso opposto, e cioè che una forma presente in tutti i manoscritti venga sostituita precisamente sulla base di una congettura: come nel XIV dell’Inferno, dove Dante descrive le acque termali del Bulicame presso Viterbo aggiungendo, misteriosamente, che servono alle «peccatrici». Per secoli i commentatori si sono affannati a spiegare che da quelle parti doveva sorgere un bordello: ma le peccatrici erano molto più probabilmente delle oneste «pettatrici», operaie cioè che usavano l’acqua bollente per la pettinatura del lino o della canapa (e qui sovviene una citazione carducciana, anch’essa medievaleggiante: «quando l’austero e pio Gian della Bella / trasse i baroni a pettinare il lino»).
Devo aggiungere che nel volume di accompagnamento in cui rende conto delle sue scelte, il professor Malato impiega cinque pagine a stampa fittissima per giustificare le pettatrici? A decidere, alla fine, è la sensibilità dello studioso, ma non il suo arbitrio: ogni scelta dev’essere motivata, perché questo è un lavoro scientifico, anche se di una scienza che ha a che fare quotidianamente con l’arte e ne è, alla fine, infiltrata.

La Stampa 22/10/2018

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