23.11.18

Nomadismo. Le lettere di Bruce Chatwin: un occhio clinico per i dettagli eccentrici (Fabio Pedone)



«Un titolo troppo razionale per una materia che fa appello a istinti irrazionali»: L'alternativa nomade, ecco come Bruce Chatwin voleva chiamare il suo primo libro, una vasta esplorazione dei motivi dell'irrequietezza umana. Tutta la sua vita era stata assorbita dal tentativo di sviscerare razionalmente le cause di un impulso irrazionale: l'impulso a vagare, alla dislocazione continua; un tema che Chatwin sentiva naturalmente sulla propria pelle. Trascinato dal demone di un ormai mitologico horreur du domicile, il viaggiatore dall'eterna faccia di ragazzino arrivava in un posto e lo trovava quasi sempre paradisiaco, che fosse un'isola greca, il Vaucluse oppure Sydney; ma dopo meno di un mese, qualunque immaginato Eden si tramutava irreparabilmente in un oceano di noia.
Le lettere dell'autore delle Vie dei canti sono adesso pubblicate a cura della moglie Elizabeth e del suo biografo Nicholas Shakespeare, mutando nella traduzione italiana il titolo dell'edizione inglese (Under the Sun) e adottando quello del libro mai più edito che doveva far luce sulla natura dell'irrequietezza umana. L'alternativa nomade. Lettere 1948-89 (traduzione di Mariagrazia Gini, Adelphi, «La collana dei casi») ci catapulta in un turbinio di appuntamenti lanciati da un capo all'altro del mondo, telegrammi incalzanti («porta scarpe deserto e almeno 250 sterline restituirò vado sahara centrale bruce»), auto a noleggio a Istanbul e passaggi su scalcinati furgoni afghani, treni, aerei, transatlantici, case in affitto, stanze ingombre di libri e indumenti alla rinfusa, oggetti d'arte da rivendere per sbarcare il lunario, torri medievali riarredate con gusto ottomano da esuli, divenute ideali tane per scrivere. Ma soprattutto ci mette di fronte all'immediatezza catturata live di una voce inconfondibile.
Chatwin, per molti una delle intelligenze più colte e brillanti della sua generazione, nei libri che è riuscito a scrivere prima della sua morte prematura ha rivelato davvero poco di sé. Questo materiale epistolare, già sfruttato ampiamente da Nicholas Shakespeare nel suo settennale lavoro sulla biografia dell'amico, dovrebbe rappresentare dunque una concreta pezza d'appoggio per completare il profilo di quella irrequietezza radicale a cui rimane ancora consegnata l'immagine che lo stesso Chatwin volle elaborare per sé.
La prima missiva il piccolo Bruce la scrive ai genitori a otto anni dalla sua scuola nello Shropshire, l'ultima dal letto di morte in Francia proprio a Nicholas Shakespeare. In mezzo, un inarrestabile flusso di comunicazioni che seguiamo per partizioni cronologiche essenziali: quando un problema agli occhi lo costringe, ventiseienne, ad abbandonare la sua carriera di esperto d'arte di Sotheby's per scoprire i vasti orizzonti e le luci dell'Africa, scrive: «non voglio continuare a stare appollaiato su un podio fingendo orgasmi tutte le volte che aggiudico un lotto». E, ancora: «Cambiare è l'unica cosa per cui vale la pena di vivere. Mai passare la vita seduti a una scrivania. Provoca ulcere e mal di cuore». La tensione al continuo cambiamento di sé stessi, all'imprevedibilità che il viaggio allo stesso tempo suscita e impone, condurrà Chatwin alla scrittura.
Riesce a scrivere ovunque, tranne nel luogo dove eventualmente potrebbe appendere il cappello, ovvero dove si senta «residente». L'abbandono della carriera di esperto d'arte è un momento chiave, anche sul piano del riconoscimento del conflitto con la propria sessualità. Poi la collaborazione con il «Sunday Times» agli inizi degli anni settanta, e nel 1977 un esordio (In Patagonia) che cambierà per sempre il modo di scrivere il viaggio e del viaggio; negli ultimi anni, infine, il progressivo avvicinarsi a un'idea tutta personale di fiction, che secondo Tom Maschler (suo direttore editoriale alla Jonathan Cape) avrebbe permesso a Bruce, se fosse vissuto, di surclassare senza sforzo tutti gli altri autori della sua scuderia (e si parla di Rushdie, McEwan, Amis e Barnes).
Ma è d'obbligo liberarsi da false aspettative, come quella che queste lettere possano dirci chi era veramente Chatwin, comunicarci una sua sostanza ultima; e anche da credenze illusorie ma date per scontate e infine sterili. Chatwin inventava, arricchiva la realtà? Certo, da narratore, ma sempre propenso a raccontare una verità e mezza piuttosto che una mezza verità, come nota Shakespeare. Le sue lettere piuttosto che darcene un ritratto definitivo ci suggeriscono la forma che volta a volta intese imprimere al suo desiderio. La direzione conta allora sempre più del punto d'arrivo. Ecco anche perché non sentiamo pudore nell'accostarci a questa vita. In tutta la sua effervescenza di contatti e incontri, paradossalmente a emergere è la solitudine di un uomo - come vuole la vulgata che lui per primo si preoccupò di diffondere - quasi sempre impegnato a stupire e a conquistare gli altri con la freschezza del suo discorso, unito a una cultura che spaziava con identica sicurezza dai manufatti maori all'arte azteca ai fossili di gliptodonte del Sudamerica, ma che preferiva partire e viaggiare da solo. Il ritratto epistolare che emerge dall'Alternativa nomade è quello di un uomo smanioso, di sensazionale sex appeal e comunicativa malgrado un fondo scostante e inquieto («era magnifico e lo sapeva», dirà Jasper Conran, uno dei suoi amanti), che manteneva i contatti con i più svariati personaggi tramite cartoline ironiche e affettuose inviate dai quattro angoli del pianeta.
«Mia cara Kathie - scrive all'epoca delle Vie dei canti - a quanto pare ci siamo mancati di parecchi continenti». Un personaggio proteiforme, esuberante ma in ultima analisi inafferrabile, sul quale è raro che due amici si esprimano nello stesso modo. Sempre però con l'occhio volto a un fine: «trovare se stessi nel movimento» per raccontare, quasi come se il viaggio contasse anche oltre sé stesso, e fosse una via regia per attingere quel destino di narratore che Chatwin aveva scoperto nei punti di svolta della propriavita. Destinataria principale del suo istinto affabulatorio è la moglie Elizabeth, che nelle note a piè di pagina svolge ora un controcanto a volte puntiglioso in eccesso, ed è stata unpunto di riferimento ineludibile per una vita trascorsa a liberarsi dalla schiavitù degli oggetti («il nomade rinuncia») ma la cui libertà erainfondo radicata nella certezza di una base a cui tornare, che fosse la casa di Holwell Farm, la torre di Gregor von Rezzori in Toscana o l'isola di Patmos. E sarà facile ritrovare in certe lettere i germi dell'opera futura, come quella in cui si descrive un grottesco matrimonio praghese che tornerà, trasfigurato in funerale, nell'ultima opera pubblicata, Utz.
Del Chatwin che già conoscevamo dai libri editi, e a cui sarà sempre doveroso ritornare, c'è qui la capacità di evocare un personaggio in due righe che lo inchiodano, così come di sfruttare stimoli e idee dei propri guru alternativamente idolatrati e abbandonati, dando a esse la propria impronta personale. Lo scambio costante con il collezionista Cary Welch, con James Ivory a cui propone strampalate idee per film da girare, con il gesuita Peter Levi si nutre di una parola vivace, ricca di luci fortissime, nata dall'impeccabile digestione di notevoli quantità di materiale intellettuale e di esperienze: con l'occhio clinico per il dettaglio eccentrico e la tensione a un orizzonte il più vasto possibile, sempre «sulla traccia di qualcosa», ma cui non manchi una «ricca vena di fantasia». Ma cosa regge questa euforia? Miranda Rothschild parlò di vuoto intendendolo come un complimento nei confronti di Chatwin, «ricettivo, permeabile, obiettivo», un «testimone della bellezza». Su questa traccia si comprende anche il senso dell'esergo da Cendrars che apre il libro d'esordio: «Il n'y a plus que la Patago-nie, la Patagonie, / qui convienne à mon immense tristesse».
Al di là delle contraddizioni inevitabili di cui ogni vita si sostanzia, non c'è dubbio che Chatwin abbia saputo fare buon uso del suo narcisismo e volgere in virtù anche i suoi istinti più prepotenti. In una delle bellissime lettere, a un tempo rapide e minuziose, inviate a Elizabeth dalla Patagonia nel‘75, si trova a mo' di chiusura una immagine che si rivela sintesi mirabile, quasi simbolica nella sua autoironia, di quel cambiamento continuo nel quale si rifondevano le precedenti strade che aveva battuto la sua esistenza: «Il mio zaino sta prendendo una patina favolosa».

Alias il manifesto, 20 ottobre 2013

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