19.11.18

1929-30. La “svolta” dell'Internazionale Comunista e il “socialfascismo” (Umberto Terracini)


Dalla Intervista sul comunismo difficile a Umberto Terracini, che Arturo Gismondi curò nel 1978, riprendo le pagine, importanti, sulla “svolta” dell'I.C. e del Pci nel 1929-30, sull'aberrazione del “socialfascismo”, sul dissenso dello stesso Terracini che gli procurò tante “fraterne persecuzioni” (S.L.L.)
Umberto Terracini negli anni 30 del Novecento

Che quelle posizioni (il dissenso di Terracini sulla “svolta” dell'Internazionale Comunista tra il 1928, l'anno del VI congresso in cui cominciò a delinearsi, e il 1929, l'anno del X Plenum dell'Esecutivo che ne fissò i caratteri. n.d.r.) fossero giuste, è stato poi dimostrato, in tempo non lungo, proprio dalle decisioni del VII congresso dell’Internazionale, che rovesciavano quelle del VI, e quindi contemporaneamente travolgevano le posizioni prese dal Partito comunista al momento della svolta.
D’altra parte oggi, disciolte tutte le nubi di carattere polemico o il tentativo di rivendicare posizioni allora sostenute, mi pare che non ci sia più discussione possibile su questi vari punti, e cioè: che la crisi del ’29-30 non era l’ultima e fatale crisi del capitalismo; che in Italia non era in corso e neanche avviato o preannunciato un processo di radicalizza-zione delle masse contro il regime fascista; che la socialdemocrazia non soltanto non era un equivalente al fascismo, ma ben presto sarebbe stata considerata anche dall’Internazionale comunista come un’alleata possibile e desiderabile in ogni azione che si proponesse di elevare un argine contro 1 avanzata crescente della reazione violenta. E infine, stiamo ancora vi-Ì vendo una fase intermedia fra la dittatura fascista e un regime che riceva la sua impronta principale dalle masse lavoratrici. Io, per l’appunto, sostenevo allora che vi sarebbe stato un periodo intermedio fra la dittatura fascista e la dittatura del proletariato. La stiamo ancora vivendo, questa fase!

D. Tu ritenesti allora particolarmente pericolosa l’equiparazione, teorizzata dal VI congresso dell’Internazionale e fatta propria dal Partito comunista, tra fascismo e socialdemocrazia.

R. È esatto. Io ritenni grave, fra le posizioni assunte dal VI congresso dell’Internazionale, soprattutto l’equiparazione del fascismo e della socialdemocrazia, giudicati entrambi nemici giurati, e ugualmente pericolosi, della classe operaia. E infatti, le conseguenze di queste concezioni sono state gravissime: un processo di rottura fra i partiti comunisti, socialdemocratici e socialisti europei; divisioni e lacerazioni all’interno del movimento operaio. Tutto ciò aiutò non poco, negli anni successivi, il successo del fascismo e del nazismo in tanta parte d’Europa. In realtà avvenne che nella foga della polemica l’equiparazione, già aberrante, tra fascismo e socialdemocrazia, fu superata nella pratica, e i socialdemocratici finirono per essere presentati come i peggiori nemici della classe operaia, contro i quali andavano portati i colpi più duri.
Le conseguenze più drammatiche, e anzi tragiche della guerra fratricida, si ebbero come si sa in Germania. La lotta aspra fra socialdemocratici e comunisti, fra i due più influenti partiti della classe operaia, condotta fino alla vigilia e perfino oltre la vittoria del nazismo, aprì la strada alla conquista del potere da parte di Hitler, decretando la fine della repubblica di Weimar e l’inizio di un periodo tragico nella storia d’Europa. È un’eclisse di civiltà che parve seppellire per sempre - fra le altre - ogni conquista del movimento operaio, comunista o socialista che fosse.

D. La genesi della « svolta » si fa risalire al VI congresso dell’Internazionale. Ma la polemica sul social-fascismo i comunisti italiani in qualche modo — a parte i toni, o le definizioni — l’avevano anticipata. Lo stesso Gramsci, nota Amendola, ha sempre nutrito una forte animosità contro il Psi. Perciò quando il VI congresso giunse a identificare fascismo e socialdemocrazia, dice sempre Amendola, trovò un terreno fertile nel Partito comunista.

R. La posizione di Gramsci nei confronti del Partito socialista fu certamente di severa critica, di polemica e di dura condanna. E ciò fin da prima di Livorno quando i socialisti, pur divisi tra riformisti e massimalisti, ritrovavano l’unità per combattere contro il movimento dei consigli di fabbrica e contro l’«Ordine Nuovo».
Dopo Livorno la lotta contro il Partito socialista fu poi necessaria da parte nostra per distinguerci, per identificarci di fronte ai lavoratori, ai quali il Partito socialista ci presentava come avventuristi della rivoluzione e intellettualoidi presuntuosi. E fu certo una lotta dura, non priva di aspetti ingiuriosi, ingiusti.
Ma tutto ciò non ha nulla a che fare col social-fascismo del VI congresso e della «svolta». Noi facemmo colpa al Partito socialista di non aver saputo guidare il proletariato italiano, sull’onda rivoluzionaria del biennio rosso, alla lotta per il potere, usurandone invece la combattività in vacue esercitazioni demagogiche, e coltivando l’utopia della rivoluzione senza prepararla, cedendo infine alla violenza terroristica del fascismo. E ritrovammo conferma delle nostre critiche nella crisi aventiniana, quando il Partito socialista, rifiutando di mobilitare assieme a noi le masse, si accodò ai partiti borghesi nella loro tattica di inerte attesa di una mediazione della monarchia. Tutti questi erano motivi di polemica, e di polemica aspra. Ma sfido chiunque a citare di quei tempi una frase, o un brano, che anche lontanamente anticipasse o echeggiasse la tarda bestemmia del socialfa-scismo. Soltanto dopo la « svolta » potè avvenire che Amendola, per esempio, parlando al congresso di Colonia, affermasse che « la socialdemocrazia per adempiere ai nuovi bisogni della borghesia si trasforma, adotta la politica fascista, diventa socialfascismo » e che in questa nuova veste è « più pericolosa del fascismo ».

1 commento:

Sari ha detto...

E' questa la maledizione divina dopo la cacciata (ammesso che...): scordare le esperienza passate di modo che si possa credere nuovo quel vecchio che avanza e che sol ieri i nostri padri hanno maledetto. "Che tutto cambi perchè niente cambi" è l'inciampo che fa dolorosamente cadere in baratri da cui sarà difficile, come è sempre stato, risalire.
Com'è (oggi) vecchio quel nuovo che avanza.

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