L’8 gennaio 1991 in occasione della nuova edizione Adelphi dell' Isola del tesoro di Robert Louis Stevenson, tradotta e curata da Ludovico Terzi, e di altri libri di o su Stevenson, “la Repubblica” pubblicava un ampio articolo di Guido Almansi da cui ho estratto un brano sul libro che io e molti altri più amiamo. (S.L.L.)
L'Isola del tesoro in preparazione per Principi & Principi (probabile uscita marzo 2012). Le illustrazioni sono di Roberto Innocenti (che bellezza!) |
Quanto al giudizio sull'Isola del tesoro espresso nell' appendice da Terzi, non sono certo di poter accettare quella che lui chiama la cristallina purezza di romanzo d'avventura. Lo so, questa opinione è suffragata da molti: dal giudizio di Sciascia nel Cavaliere e la morte (L' isola del tesoro è uno di quei libri che assomigliano alla felicità), al Manganelli nell' introduzione della Bur, ad altri critici; ma io continuo a credere che il fascino del romanzo consista semmai nella sua impurità, nella mancanza di cristallinità.
Qui vorrei rifarmi a un vecchio giudizio di Guido Fink espresso in una trasmissione radiofonica e forse mai pubblicato: “La bellezza dell' isola è una bellezza malata, vicina ai canoni estetici della fine del secolo”. L' isola è così descritta da Stevenson: “Il tratto di costa aveva una lucentezza malsana ... c' è un caratteristico odore di acque stagnanti, (...) di foglie putride e tronchi d' albero marci”. Il dottore scommette la sua parrucca che “lì c' è la malaria”.
L' isola per Stevenson non è un miraggio della salute, ma un passaggio da una malattia a un' altra malattia. Alla fine dell' avventura Jim non rimpiange certo quell'“isola maledetta”; il suo incubo non è più “il marinaio con una gamba sola” bensì il suono della “risacca lungo le coste”. L' isola del tesoro è un testo molto più complesso di quanto appaia a prima vista.
Da Guido Almansi, I tesori di Stevenson, “la Repubblica”, 8 gennaio 1991
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