18.11.11

Adam Smith come problema (di Massimiliano Panarari)

Massimiliano Panarari, in un articolo su “La Stampa” del 29 Settembre 2011, contesta come indebita appropriazione l’uso neoliberista del pensiero di Adam Smith e propone una lettura più aperta e problematica del pensatore illuminista. Lo fa nella recensione di una recente antologia curata da Michele Bee (Donzelli) di cui qui ripropongo una gran parte. (S.L.L.)
Liberale, certo che sì. Neoliberista, grazie no. E se, quindi, la poderosa operazione cultural-propagandistica che ha trasformato il padre dell'economia politica Adam Smith (1723-1790) nel genitore putativo di Mr. Reagan e Mrs. Thatcher fosse storicamente assai poco corretta, oltre che politicamente molto strumentale? Ce lo racconta l'interessante analisi condotta dallo storico dell'economia Michele Bee che ha curato un'antologia di scritti di Smith, L'economia dei sentimenti (pubblicato da Donzelli nella collana degli «Essenziali» , pp. 156), e propone una interpretazione controcorrente rispetto a quanto e' stato ripetuto continuamente nel corso degli ultimi decenni, sino a diventare senso comune nelle scienze economiche e nel dibattito politico-culturale. Rileggendo alcuni testi tratti dalle sue opere fondamentali - Teoria dei sentimenti morali (1759) e La ricchezza delle nazioni (1776) - lo Smith neoliberista diffuso a piene mani dai Chicago boys e dagli alfieri del neoliberalismo appare alla stregua dell'invenzione di sana pianta di una tradizione, alimentata per primo dal neoclassico e marginalista Léon Walras. Perché se è vero che dentro i libri delle grandi figure della cultura occidentale si può trovare di tutto - persino una cosa e il suo contrario, come direbbero compiaciuti i sostenitori dell'ermeneutica infinita - la serietà del lavoro di interpretazione dovrebbe imporre il rigore filologico a una serie di paletti per evitare certe letture troppo orientate. Come é avvenuto, giustappunto, con il grande filosofo ed economista scozzese - illuminista, repubblicano, Whig (ossia esponente del partito liberale che si contrapponeva ai conservatori Tory), e tra gli ispiratori della Rivoluzione francese - che, a quasi duecento anni dalla morte, si é ritrovato arruolato, suo malgrado, tra gli ideologi della controrivoluzione neoconservatrice. Nasce così la vulgata interessata dell'estimatore della «mano invisibile» e del teorico dell'individuo come soggetto egoista e razionale che agisce nella società (quella che per la signora Thatcher, come noto, non esisteva) perseguendo unicamente il proprio interesse, ma producendo altresì, magicamente, il bene comune. Una visione sovrapponibile, a conti fatti, a quella della Favola delle api di Bernard de Mandeville, dove i vizi privati si tramutano in pubbliche virtù. Questo Smith hobbesiano e mandevilliano diventa così l'autorità a cui appellarsi per rimuovere l'intervento dello Stato (dal momento che il mercato è di per sè razionale e, quindi, non deve subire ingerenze esterne) e per separare l'agire economico, ispirato dal self-love, dalla morale che reprimerebbe le «naturali» pulsioni all'arricchimento. Se non fosse che - c'è sempre un perché... - il medesimo filosofo e' stato anche l'autore della Teoria dei sentimenti morali, nella quale tra i motori del comportamento individuava anche il «sentimento» della simpatia e l'inclinazione ad aiutare gli altri nel raggiungimento della felicità. Un'apparente contraddizione: e, difatti, si tratta del cosiddetto «Adam Smith Problem», come lo chiamano gli studiosi, che i discepoli di Friedrich von Hayek hanno sbrigativamente liquidato indicando la Teoria come un'opera giovanile, piena di illusioni e trasporto verso la natura umana, che la maturità ha poi riveduto e corretto. E, invece, l'interpretazione proposta da Bee riporta proprio all'importanza di quel libro, che ci restituisce un pensiero smithiano pieno di sfumature e molto più problematico di quanto spacciato dall'ortodossia neoliberale. Il self-help del famoso macellaio e del celebre birraio (quelli dalla cui generosità non dobbiamo attenderci il pranzo) si riferisce al desiderio di ottenere il giusto prezzo per la propria merce assai più che ai furiosi spiriti animali dell'egoismo. Ha a che fare, in sostanza, con il riconoscimento della propria dignità e del proprio lavoro, perché il mercato, come dice questo campione dell'Illuminismo europeo, è, in quanto scambio, l'espressione di una tendenza naturale di un gruppo di individui sociali, e non la costruzione astratta ove operano individui perfettamente razionali. Smith, infatti, critica Hobbes e rigetta l'idea di razionalità come movente supremo dell'agire umano, andando alla ricerca dell'equilibrio economico. E' von Hayek che sposta l'ottica, facendo del mercato la misura immutabile dell'equilibrio e l'unica forma possibile di regolazione sociale. Ma, in questo modo, ai quesiti si sostituiscono i dogmi, e l'economia diventa religione; proprio ciò che Smith, seguace dei Lumi, rifiutava con decisione, al pari di ogni metafisica. Così, questi nostri anni di neoliberismo sfrenato (e di impoverimento generale) hanno consegnato il Villaggio globale a teologi e apprendisti stregoni della «voodo economics», con effetti che sono sotto gli occhi di tutti. E il fondamentalismo di mercato ha finito col tradire la filosofia morale di Smith...  

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