16.11.11

Pastasciutta della Padania (di Massimo Alberini)

Massimo Alberini (1909-2000), padovano, è stato a lungo giornalista del “Corriere della Sera”, ove si è occupato soprattutto di spettacolo, tempo libero e costume (hanno una celebrità di nicchia i suoi scritti sul “circo”, di cui fu appassionato e studioso). In un ritaglio da un supplemento settimanale del quotidiano di via Solferino (dovevano correre gli anni 70) o dalla rivista del Touring (per un po’ fu curata dal Corsera, che usava un’impaginazione simile a quella del suo magazine) ho trovato un bell’articolo da lui firmato dal titolo La pastasciutta è “grande” anche nel Nord. Ne riporto una gran parte con qualche rimpianto. Il giornalista cita, infatti, con ammirazione un pastificio artigiano ligure e lo definisce “incredibile”, ma oggi quel pastificio non c’è più (come temo non siano più alcune delle trattorie che cita). L’ondata di distruttiva modernizzazione che ha coinciso con il craxismo prima e con il berlusconismo poi ne ha piegato la resistenza. Ora si vendono le etichette di quelle paste come oggetto di collezione su E-bay. A caro prezzo.
Ma l’articolo mi fa nascere un altro rimpianto. L’Alberini, infatti, usava con tranquillità l’aggettivo sostantivato “padano”, per indicare gli abitanti di un’area, i portatori di una cultura alimentare. Quando Bossi e i suoi non l’avevano trasformato in nazione, la Padania aveva una sua vitalità quanto meno gastronomica e i padani l'abitavano con gusto. Si poteva scriverne senza essere accusati di secessionismo: il termine indicava un’area di circolazione dei saperi e dei sapori, forse un’aura.
Oggi certi patrioti italiani, antileghisti imbecillotti perfino quando collocati su altissimi colli, pretendono di far polemica gridando come ossessi: “La Padania non è mai esistita e non esiste”. Il che è – naturalmente - una stupidaggine.
Come ipotesi di “nazione” la Padania esiste da quando un raggruppamento politico ha cominciato a parlarne, giacché le nazioni non esistono mai di per sé, come dato oggettivo, e quasi sempre nascono come invenzioni culturali e politiche, talora (ma non sempre) facilitate da storia e geografia. Come “espressione geografica” (e con i confini approssimativi e labili di talune espressioni geografiche) la Padania – invece - esiste da molto più tempo e non coincide affatto con tutto il settentrione peninsulare, ma con la sua parte più direttamente influenzata dal grande fiume, a partire dalla grande pianura alluvionale che esso solca. Il rischio è semmai che, trasformandola arbitrariamente in nazione, Bossi e i suoi finiscano col distruggerla.
Chi vuol fare polemica efficace, pertanto, più che dire “la Padania non esiste” – cosa peraltro non vera - farebbe meglio a entrare nel merito delle affermazioni e degli slogan e a dimostrare che uscire dall’Italia (che è stata anch’essa una invenzione culturale e politica come tutte le nazioni) per confluire in una “nuova nazione”, la Padania appunto, non conviene a piemontesi, lombardi, veneti, emiliani eccetera, perché avrebbero molto da perdere da una simile scelta. La cosa, peraltro, si può dimostrare con argomentazioni semplici ed evidenti, senza tirare in ballo improbabili “eternissime” patrie.
Ma lassù, sul più alto dei colli, qualcuno si sente investito di un potere sacrale e di conseguenza preferisce gli anatemi alla persuasione. (S.L.L.)
Lo si è ripetuto mille volte; la vera unità d’Italia, un secolo addietro, l’hanno fatta i maccheroni. Garibaldini e truppe piemontesi partirono dal Nord convinti mangiatori di riso e tornarono dal Meridione entusiasti della pastasciutta.
Non si deve credere però che liguri e padani si nutrissero, prima di allora, solo di risott, risi e bisi e simili. Al contrario, in molte province la pasta era il “primo” maggiormente apprezzato. Basterebbe l’esempio dell’Emilia, patria italiana di quel piatto europeo che sono le tagliatelle (nouilles in Francia, noodlesin Gran Bretagna, spatzle per i germanici) a dimostrare i veri orientamenti del gusto.
I tortelli, confezionati nelle più diverse maniere a seconda della provincia (errore gravissimo sarebbe, per esempio confondere i parmigiani con i cremonesi, con i mantovani o con i bolognesi) sono una gloria secolare della cucina padana. Variano il ripieno e la forma , ma l’elemento costante è la pasta. Ma c’è anche dell’altro come cerchiamo di testimoniare.
Tajarin al ragù di spigola
TAJARIN
Da Novara al Moncenisio il riso domina in Piemonte. Troviamo però un’enclave d’eccezione, le Langhe. La maschera del Carnevale di Alba è Lasagnon, gentiluomo ottocentesco in frac azzurro: deve il suo nome al pastificio di cui è proprietario, e alla sua passione per le lasagne al sangue (la pasta è condita con salsiccia, lasagne, latte e sangue di maiale, formanti una specie di crema). Saliti in cerca di tartufi e barbaresco, i forestieri si vedono offrire quale base per entrambi, i tajarin all’albese, di farina e sole uova, sottili, ben al dente (chi l’ha detto che al Nord si mangi sempre pasta stracotta?) conditi con ragù di fegatini di pollo all’aroma di rosmarino.
Bigoli all'anatra
BIGOLI
Mantova segna il punto d’incontro tra la cucina lombarda e la veneta. Anche i bigoli, rusticani spaghetti fatti al torchio, in famiglia, mettendo alla prova le braccia della cuoca, specie se si lavora l’impasto di uova, farina integrale e acqua. Essiccati in parte sul tavolo, cotti nel solito modo, i bigoli si condiscono con il sugo di anitra arrosto, con i “rovinassi” ( a Padova sono i pezzetti di pollo) o, ricetta tipica tra tutti, la “salsa”, una specie di “bagna caoda” alla veneta, di olio, burro e acciughe sotto sale, spappolate nel grasso. Precidsa Tano Martini del Cigno di Mantova, un posto sicuro non solo per i bigoli, ma per alcune ricette rinascimentali: “Non acciughe, ma sardelle”. Per fedeltà alla tradizione, non toglie la lisca centrale. Partendo da Mantova portatevi a casa una “sbrisolona”, la torta di mandorle che si sbriciola colpendola col pugno. Due edizioni: rotonda e rettangolare. Buone entrambe.
Pizzoccheri con patate
PIZZOCCHERI
Come materia prima, la più antica pasta asciutta italiana richiede l’impiego grano saraceno (fraina) oggi miscelato con farina bianca, e irrobustito con qualche uovo (non tradizionale). Si ottengono grosse, irregolari, rustiche tagliatelle, da cuocersi insieme a foglie di verza (qualcuno ci mette anche le patate) Si scola e si scondisce tutto assieme con troppo burro (un etto per tre persone) grana e formaggio di latteria. In menù di molti ristoranti. Ci segnalano il Cerere di Ponete della Valtellina, padrona e cuoca Rosalinda fianchetti detta Cieci, moglie di Umberto Del Zoppo, ma cellaio, che va in giro a scegliersi le carni per le sue bresaole. Al telefono: “Se vengono, gli faccio anche i miei sciatt, le frittelle leggere farcite di formaggio”.
Trenette avvantaggiate
CORZETTI, GASSE, PICCAGGE E TRENETTE
Ingiustamente, ben pochi riconoscono alla Riviera Ligure occidentale il merito di avere preceduto il Sud nell’arte di lavorare la pasta. Per documentarsi sulla storia del nostro piatto nazionale, chiedere a Eva Agnesi, di visitare a Pontedassio, a pochi chilometri da Imperia il suo museo storico degli spaghetti, divertente e curioso. Eva è comproprietaria: produce spaghetti in linea con la gastrotecnica industriale. Per trovare la pasta come una volta bisogna andare a Genova. A pochi passi da Principe, al 140 di via Pré, resiste del 1820 l’incredibile pastificio Peregallo: pochi lavoranti, le macchine in retrobottega, gli essiccatoi nei due appartamenti sopra. Niente aria condizionata, la pasta asciuga al vento del Mar Ligure, quando U sciu Giuseppe apre e chiude le finestre. Trovate, a mille lire al chilo, le vecchie specialità liguri: le gasse (farfalle), le piccagge (lasagne), le trenette avvantaggiate, di farina scura, indispensabili per il minestrone, e soprattutto i corzetti tagliati, a forma di suola di scarpetta. Una volta si facevano anche i corzetti “all’antica”: ritagliati, nella sfoglia, con degli stampi rotondi, aventi al centro, a rilievo, un fiore, una medaglia, un fregio. Ora quelle paste, costose per quanto richiedono di mano d’opera, sono in lista in pochi ristoranti. Fra essi la Stadera di Bogliasco, proprietario e chef Luigi Viacava. Conditi col tocco (sugo) di carne o col pesto, 1500 la porzione.  

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