1.11.11

Teologia del primato: la Chiesa incorreggibile (Michele Ranchetti, “la rivista del manifesto” n.10 2000)

Gianni Bovini deve aver dimenticato l’impegno a recuperare, digitalizzate in PDF, le mie Cronache giubilari (Giada, 2001), di cui volevo far circolare le riflessioni conclusive, tra lo storico e il politico, sull’Anno Santo del millennio: dopo dieci anni e più mi sembrano reggere – io per esempio le condivido ancora. Tornerò a sollecitarlo, sperando che non abbia smarrito il dischetto.
Intanto qui posto la prima parte di un bilancio su quell’anno giubilare pubblicato su “la rivista del manifesto” nell’ottobre del 2000 a firma di Michele Ranchetti sotto il titolo Prevalebunt. La tesi di fondo - che condivido - è che quel Giubileo cancellava le tendenze “democratiche” e “conciliari” e riportava la Chiesa cattolica in linea con l’ottocentesco Concilio Vaticano I, usato da Pio IX per promulgare il dogma dell’infallibilità papale. Non a caso proprio in quel duemila papa Mastai veniva beatificato. L'attuale papato, pur senza l'afflato mediatico del precedente, mi pare in piena continuità con quella impostazione. (S.L.L.)

"Se sbalio, corriggitimi" sono state forse le prime parole pubbliche pronunciate 'nel suo triste italiano' dal pontefice Carol Woytila appena eletto con il nome di Giovanni Paolo II. Ha sbagliato. Non è stato corretto. E chi mai avrebbe potuto farlo? Esempio 'perfettissimo' di quella teologia del primato che si inaugura e si perfeziona a partire dal pontefice Pio IX, giustamente, in essa, proclamato beato in questi giorni, il pontefice, vicario di Cristo, capo appunto di quella Chiesa, non disponeva per principio di alcuna possibilità di vedersi corretto da nessuno; non poteva che sbagliare da solo, forte del dogma dell'infallibilità, in materia di fede e di costumi, che quel suo predecessore aveva proclamato nel corso di un concilio ridotto all'impotenza dalla sua personalità autocrate e disturbata. Non poteva essere corretto da cardinali, neppure adunati in concilio, perché la sua volontà, legittimata 'di per sé e non dal consenso della Chiesa', si voleva suprema. Non poteva neppure, ovviamente, essere corretto dai laici. I laici, distinzione di ceto che ha senso solo all'interno di una concezione ecclesiastica della realtà (di qui, anche di qui, la loro impotenza religiosa e la loro inesistenza come ceto nella vita civile), nel tempo della crescita e del fissarsi di questa ecclesiologia, non avevano alcuna autorità per opporsi o almeno per far sentire la propria voce, sia pure 'consultiva', ridotti al ruolo di osservatori non addetti ai lavori del ceto sacerdotale. I tentativi di costruire una teologia del laicato, o di riconoscere le realtà terrestri, generosi e ispirati, non avevano ottenuta che una scarsa eco, relegati nell'ambito di quella 'esperienza religiosa' che il ceto sacerdotale e le autorità della Chiesa istituzionale e gerarchica hanno sempre visto come il nemico per eccellenza, perseguitandola nelle sue forme più visibili, o consentendole di vivere in piccole serre di colture esotiche, primizie di una fioritura improbabile e non necessaria. Gli 'intellettuali', poi, già ben prima, dai tempi della Controriforma, erano stati esclusi dalla 'dottrina', oltre che dalla istituzione ecclesiastica. tentativi consentiti, se mai, nelle strutture, anch'esse 'regolate', degli ordini religiosi e delle confraternite, dove le forme di una diversa spiritualità o anche solo di un differente 'sentire' religioso, potevano trovare un riconoscimento soprattutto nell'accezione di una sorta di 'vivaio' per gli sviluppi futuri dell'istituzione - sorta di minoranze e di varianti consentite dalla tolleranza romana.
Dalla proclamazione del dogma dell'infallibilità papale, che interrompe i lavori del Concilio Vaticano I, ad oggi, infatti, la teologia e soprattutto la ecclesiologia del primato di Pietro, primato di giurisdizione e di verità, si è perfezionata sino a conseguire, nell'insopportabile e tragico presente della Chiesa di Roma, il suo compimento nella figura di un pontefice sofferente che si esibisce dagli schermi televisivi e che viene osannato 'di per sé e non dal consenso della Chiesa' da milioni di giovani in festa, non si sa di chi e perché, una festa che assomiglia sin troppo al tripudio della folla ebraica al vitello d'oro, in assenza di Mosè e della legge dettata da Dio. Giovani di cui difficilmente si potrebbe riconoscere il carattere, la natura religiosa, la 'differenza' religiosa, appunto, da quelli che si radunano in occasione di concerti, giovani che si comunicano in massa e che, sembra, non abbiano tempo né desiderio di meditazione, accorsi a 'vedere', quasi che il pontefice avesse aggiunto, alla prerogativa della infallibilità, quella della visibilità come dono e come nota caratteristica della Chiesa Romana. Questi giovani, del resto, non amano essere interrogati sulle ragioni della loro presenza a Roma. Se interrogati, le loro risposte sono scoraggianti, banali, anodine: la ragione della loro presenza a Roma è simpliciter la loro presenza a Roma. La tautologia è la loro dialettica, così come l'asserzione è la dialettica dell'istituzione ecclesiastica: il discorso religioso, la stessa dottrina cattolica, è quasi inesistente o consiste in una serie di proposizioni non discusse, non discutibili, semplicemente affermate: sono le 'tesi' catechistiche quali esse figurano nel catechismo di Pio X, dei primi del secolo, riproposto identico da Comunione e Liberazione nel 1993: chi è Dio, etc. La Chiesa, in quel catechismo, è la chiesa docente, non si parla della chiesa discente. L'infallibilità papale è assoluta. La semplificazione della 'verità' religiosa a poche proposizioni costituisce evidentemente tutto ciò di cui questi giovani hanno bisogno: la meditazione, la stessa spiegazione in nota, non li riguarda. Le cose stanno così, il dubbio è opera del Diavolo.

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