12.11.11

Poesia e musica: il caso De Andrè (di Andrea Cortellessa)

Riprendo, con un titolo mio, crocianeggiante, ampi stralci da un articolo di Andrea Cortellessa, pubblicato prima in "alfabeta 2", poi nel sito "Le parole e le cose", ove ha suscitato un ampio dibattito.
Il culto per Fabrizio De André nell'Italia contemporanea
È appena meno risaputo del fatto che non ci siano più le mezze stagioni. Se c’è un assunto dato per scontato dalla nostra cultura massmediatica è che i poeti non sono più quelli di una volta. Nel senso che la poesia contemporanea (appena meno vituperata della musica, che osi corredarsi dell’infausto aggettivo) non si capisce. Peggio: non vuole farsi capire, è autoreferenziale, è «per specialisti». Altri tempi quelli di Dante, di Leopardi, o anche di Montale. (Come se le tirature dei loro libri, allora, fossero di milioni di copie.) Lo hanno detto anche critici illustri. Per esempio Marco Santagata – il maggior esperto di Petrarca, oltre vincitore del Campiello come romanziere – che in una sua antologia scolastica ha sostenuto che, a partire dagli anni Sessanta del Novecento, «la migliore poesia italiana […] va ricercata all’interno della produzione musicale» (Il filo rosso, Laterza 2006)...
Già, perché se i poeti non sono più quelli di una volta è anche perché, stando così le cose, «poeti» sono da considerarsi piuttosto, ora, quelli che scrivono (ed eseguono) appunto le canzoni...
Chi lo ha detto con più decisione è stata la vecchia Fernanda Pivano, che a un certo punto finì per decretare che era Fabrizio De André  – papale papale – «il più grande poeta italiano degli ultimi cento anni» (The Beat Goes On, Mondadori 2004).
Ecco, De André. Anche chi a frasi come le precedenti (che tutte giocano un po’ pour épater) risponde con un sorriso di sufficienza, deve munirsi di pinze parlando di De André. Non solo perché davvero la sua avventura musicale è stata per molti versi unica, pionieristica e in molti sensi coraggiosa; ma perché il culto che gli viene tributato, da piccoli e grandi fan, ha del sanguinario. Anzi, quello per De André è un po’ un unicum perché mentre le passioni sanguinose sono in genere ultraminoritarie, da happy (very) few, la Deandrelatria – nei dodici anni che ci separano dalla sua morte prematura – più che trasversale è stata pervasiva, ubiquitaria. Quasi totalitaria. La bibliografia su di lui è degna di un grande classico della nostra letteratura; gli sono intitolati premi, fondazioni, convegni (nonché strade e piazze)... Sui muri della mostra annisettanta, alla Triennale di Milano nel 2007, erano riportate frasi esemplari che avrebbero dovuto dare il senso di quel decennio: e la scelta del curatore Gianni Canova pescava esclusivamente dal repertorio di De André. Non solo il maggior scrittore italiano del decennio, dunque, ma addirittura l’unico.
Fra le parole tanto amate del Faber i fan sembrano voler ignorare, però, solo quelle con cui il diretto interessato, al riguardo, non pareva dar adito a dubbi. In un’intervista del 1979, ha dato lui – mi pare – la più equilibrata definizione di se stesso: «rifiutavo questa etichetta di poeta che volevano per forza appiccicarmi addosso: cercavo soltanto di gettare un ponte tra la poesia e la canzone, e mi servivo della musica come un pittore si serve della tela». Parole che un poeta di oggi – che De André lo ama molto (producendosi anche in una riscrittura della Canzone del maggio) –, Lello Voce, ha commentato così: «i ponti non sono fatti per confondere le rive, sono fatti per portare gli uomini da una sponda all’altra, lasciando loro la coscienza di essere sull’una, o sull’altra sponda» (in Il suono e l’inchiostro. Cantautori, saggisti, poeti a confronto, a cura del Centro Studi Fabrizio De André, Chiarelettere 2009).
L’immagine del ponte è importante non solo per il collegamento, ma anche per il trasporto. In un’altra intervista, dell’84, De André si riconosce un merito: quello appunto di «trasportare nella canzone dei temi che erano bagaglio della letteratura». Ed è proprio di natura tematica la più grande novità che De André – nel momento-chiave in cui si afferma la «canzone d’autore», così chiamata a partire dal 1960 – importa in un mondo, quello della canzone italiana, sino ad allora dominato dagli stereotipi più vieti dell’ammmore romantico e dei buoni sentimenti familistici. Come ha sottolineato Giuseppe Antonelli nella sua recente indagine linguistica sui testi della canzone italiana del secondo Novecento (Ma cosa vuoi che sia una canzone. Mezzo secolo di italiano cantato, il Mulino 2010), una canzone come Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers, che nomina le «grandi puttane» con cui pare «debbano risolversi» tutte «le avventure in codesto reame» (nulla di nuovo sotto il sole!), è antropologicamente – prima che linguisticamente – un segno assai eloquente dell’anno in cui uscì: il 1968.
L’«umanità di scarto» che pullula nella Genova reinventata da De André – alla luce di Baudelaire e di Saba, secondo Gianni Borgna; ma io ci metterei anche Dino Campana – rappresenta in questo senso una vera, importante novità. Come ha mostrato una studiosa che ha lavorato nel suo archivio, Marianna Marrucci, i prelievi di De André dalla letteratura «alta» (ma con un sintomatico penchant per quella che pesca nei registri «bassi», come le ballate di François Villon) erano estesi e corposi, al limite del plagio creativo (...).
Meno entusiasmante il bilancio in sede linguistica e stilistica (che è, o dovrebbe essere, il campo di squisita pertinenza appunto della poesia). Sino ai testi «classici» di De André, quelli appunto degli anni Settanta, la sua versificazione di rado si discosta dalla metrica tradizionalmente impiegata dalla canzonetta italiana, l’odicina melica codificata nel Seicento da Gabriello Chiabrera (versi brevi, spesso parisillabi, con rime sdrucciole o, più spesso, tronche), perfetta per calzare come un guanto sulle forme musicali ricorsive coi loro ritornelli.
Ed è proprio questo semplice problema «tecnico» (e non certo lo snobismo o il «razzismo» che spesso i cantautori e i loro fan rimproverano a chi si ostina a non riconoscere loro dignità letteraria), che impone ai testi delle canzoni improbabili passati remoti e futuri, forestierismi altrimenti gratuiti, esclamazioni monosillabe da melodramma ottocentesco e altre «zeppe» evidenti. Il che impedisce (come ha mostrato Luca Zuliani nel miglior saggio sulla tradizione dei nostri testi per musica, Poesia e versi per musica. L’evoluzione dei metri italiani, il Mulino 2009) che i versi delle canzoni italiane possano ambire a un’effettiva autosufficienza poetica. Si tratta di una lingua ancillare, con tutta evidenza modellata sulle esigenze di un’altra metrica: quella musicale. Per questo fra l’altro la grande poesia italiana (che sin dal Cinquecento ha «divorziato» dalle forme musicali, emancipandosene definitivamente con la «canzone libera» di Leopardi), a differenza di quella di altri paesi, è molto difficile da mettere in musica: nel 1941 il Coro di morti di Goffredo Petrassi ha potuto fare eccezione proprio perché in quell’occasione Leopardi, per una volta, aveva fatto il verso alla melica corale d’antan.
De André soffriva molto questa gabbia, ed è stato fra i pochi a denunciarne le ristrettezze: «Scrivere canzoni in italiano è difficile tecnicamente, perché le esigenze della metrica ti rendono necessaria una gran quantità di parole tronche, che in italiano non ci sono, o comunque non abbondano. A questo punto ti vedi costretto, per garantire la qualità estetica del verso, a cambiare addirittura il senso di quello che vuoi dire». E infatti il senso per De André veniva prima di tutto. Lo testimoniano le sue carte: prima stendeva un canovaccio, un «argomento in prosa» (spesso prelevato da un’opera letteraria-fonte), poi componeva la musica, e solo alla fine versificava l’«argomento»: appunto seguendo la musica. Ed è stato proprio nel tentativo di evadere a tutti i costi da queste costrizioni «tecniche» che lo stesso De André ha percorso le sue strade più innovative: usando melodie non ricorsive (ispirandosi a musiche arcaizzanti e a ballate popolari, come nel caso di Marinella o della Guerra di Piero), usando ritornelli senza testo (lasciato agli strumenti, fischiettato o cantato senza parole, come in Bocca di rosa o nella Ballata dell’amore cieco) o usando al posto dell’italiano il dialetto: come nel grande album dell’84 Crêuza de mä che non solo dà l’avvio alla rinascita dialettale della canzone italiana ma è finalmente in sintonia (e in sincronia) con le scelte di parte non esigua della parallela poesia di ricerca.
Oggi il panorama musicale è molto cambiato, e come dicono in molti non ha forse neppure più senso un’espressione come «canzone d’autore». Ma almeno della metrica melica e delle sue assurde rime tronche gli autori migliori possono fare finalmente a meno: e se lo possono fare è anche, se non soprattutto, grazie al lavoro pionieristico di gente come De André. Resta vero, però, che pretendere di «leggere» le canzoni come poesie è un autentico paradosso. Significa infatti privarle di ciò che hanno in più rispetto alla poesia, la musica: costringendole a giocare una partita impossibile. Un altro poeta del nostro tempo, Valerio Magrelli, una volta ha detto che tra i versi che scrive lui e quelli delle canzoni c’è un rapporto simile a quello fra la ginnastica a corpo libero e quella con gli attrezzi. Lamentarsi di quella che appare una diminuita rappresentatività sociale della poesia, e decidere per decreto che dunque la poesia è un’altra – quella delle canzoni, appunto – equivale a rispondere alla crisi di credibilità del ciclismo facendo correre il Tour de France a Valentino Rossi.

1 commento:

Anonimo ha detto...

ero ragazzo e non capivo..... tutte canzoni copiate quasi tutte tutte tutte che schifo de andre'!ho buttato tutti i dischi.

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