Da un post dal nuovo sito de “Il primo amore”, L’infinito a teatro di Tiziano Scarpa, riprendo questa problematica e profonda riflessione leopardiana. (S.L.L.)
Ai nostri giorni si smozzica qualche frase, mortificata dal dovere di essere simpatici, dalla paura di risultare ridicoli, pesanti, di importunare, di non compiacere. Si evitano i discorsi impegnativi. La parola di Leopardi è il contrario di tutto questo. È una parola siderale, oppressa, conquistata con fatica, ma sommamente liberatoria. Spalanca lo sguardo, sprigiona questioni smisurate. Rimette al centro le domande necessarie.
Una parola radicalmente aliena, estranea e irriducibile alla nostra mentalità. Un farmaco febbricitante che viene a contatto con il nostro siero annacquato e lo ustiona. Ci sono momenti e posti, come oggi in Italia, in cui per trovare qualcosa di non conforme bisogna cercarlo nel passato.
Giacomo Leopardi, così poco italiano. Massimalista. Inflessibile. Inopportuno. L’opposto degli italiani, che lo hanno eretto a loro campione. Così inascoltato, tumulato nei programmi scolastici. E tuttavia: la scuola. La scuola, sì, nonostante tutto. I giovani. L’adolescenza. La forma di vita chiamata “studente” che viene a contatto con Leopardi, proprio a scuola, nel più ovvio e istituzionale degli incontri: ma, a pensarci bene, è l’incontro più sbalorditivo e inaudito. Fra coetanei!
Leopardi ventunenne ha appena scritto L’infinito, qualche giorno dopo aver fallito la fuga da casa: ma la sua poesia ce l’ha fatta a fuggire, non solo oltre le siepi di Recanati. Ha scavalcato i secoli, e fa irruzione nelle stanze dei ragazzi svogliati, disperati, incontenibilmente sognatori.
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