2.9.09

Infortuni sul lavoro. Un mio racconto inedito (1998).

Infortuni sul lavoro

Parte prima
1.
Nonostante il dentifricio, il filo, il colluttorio e l’aerosol, si sentiva la bocca impastata.
Aprì la finestra e si guardò intorno, operazione insolita per lui, che aborriva non solo i paesaggi naturali, ma anche quelli che davano l’impressione di esserlo. I boschi, i laghetti, i fiumiciattoli, i cespugli verdeggianti, i colori cangianti secondo l’ora e la stagione potevano fare la gioia dei bimbi, dei cineasti e dei tedeschi, non certo la sua. Lui sapeva, anche per averlo inteso ad un convegno, quanto quel naturale fosse finto e come nell’intera Etruria non vi fosse un palmo di terreno intatto dall’intervento umano. In ogni caso tutto era meglio di quel sito silente: il traffico urbano ed i monumentali cavalcavia alle uscite dell’autostrada, le ciminiere fumanti, gli odori dei coloranti, dei collanti e dei solventi nei capannoni e perfino la polvere dei cantieri edili. La cultura industrialista, che taluno gli rimproverava e sulla quale talora per vezzo faceva autocritica, era in realtà il suo orgoglio.
Abitava lì per l’occhio del mondo, che obbligava chiunque fosse arrivato a ruoli dirigenti ad alloggiarsi in codeste masserie riattate, dove tutto doveva apparire nativo e perfino le grandi potenti automobili dovevano occultarsi tra le pietre anticate. Per fortuna ci restava pochissimo. Ma l’essere ora forzato a lasciare quel luogo, trasferito d’ufficio, gli dava noia. Non temeva futuri improbabili attacchi di mortale nostalgia, non era nato a Cuneo lui, lo pungeva piuttosto la coazione.
Si abbigliò da cerimonia, un completo blu elettrico, una camicia rosa a righe sottili, una cravatta a stelle e mucche volanti, pacchiana. Se n’accorgeva perfino lui, che non aveva certo gusti raffinati; ma un po’ di pacchiano non guasta mai (così s’era detto al momento dell’acquisto).
2.
In macchina accese la Marlboro con qualche difficoltà, adoperando il cilindro incandescente del cruscotto. Forse proprio in quelle sigarette si celava un nodo irrisolto, chissà il segreto della sua vita.
Da ragazzo aveva fumato Nazionali semplici, un po’ per necessità economiche un po’ per scelta di classe, dopo aver scartato le dure, irritanti Alfa o Sax. Poi, in seguito ad una bronchitella, trascinato dalla corrente, era approdato alle MS, le long size italiane dell’uomo medio, né economiche né care, né aromatiche né puzzolenti, con il filtro, onde difendere i polmoni da catrame e nicotina. Aveva patito la mancanza di contatti diretti col trinciato, ma col tempo si era assuefatto.
Il passaggio alle Marlboro era stato invece graduale, quasi inconsapevole. Gli è che, quando rimaneva senza tabacco, in tanti alla Camera del Lavoro offrivano le americane e, se era lui a dover provvedere agli altri, li vedeva storcere il muso o addirittura rifiutare. Non si trattava soltanto di quelli del pubblico impiego o di stagionati burocrati, ché anzi questi ultimi, irrimediabilmente vetero, spesso ammorbavano l’aria con le loro Super senza, e, se ce n’era qualcuno malato d'esterofilia, si procacciava chissà dove le Gauloises o le Gitanes delle miniere. A fumare ed offrire Muratti, Camel e soprattutto Marlboro, era proprio l’avanguardia operaia, i qualificati, gli specializzati, i delegati con distacco pieno o parziale, i quali, con quelle sigarette e la grossa agenda sotto il braccio, attutivano il sentimento d'inferiorità nei confronti di capi e dirigenti.
Doveva essere accaduto per caso: ora tarda, tabaccaio chiuso, baretto sprovvisto. Aveva comprato le Marlboro per ripiego, una volta, due, poi non le aveva lasciate più. Ma anche nel caso ci deve essere l’impronta dei tempi. Se fosse l’effetto di Repubblica, che induceva comportamenti moderni e globalisti, o se già fosse in auge l’edonismo reaganiano, non avrebbe saputo dirlo, le cose erano andate avanti tutte insieme; ma, come che sia, il bianco e il rosso di quel pacchetto erano ormai parte della sua identità e si confondevano con i colori della squadra del cuore, che egli aveva cominciato a seguire con assiduità ben prima che la passione per il pallone contagiasse l’intera dirigenza politica e sindacale della sinistra. Di più: quei colori e quel marchio campeggiavano in ogni Gran Premio e lui non si accontentava d’esserne spettatore televisivo. Era andato a Monza quasi tutti gli anni, ad Imola un paio di volte, a Montecarlo quando vinse Patrese, ed era stato addirittura testimone, all’Hungaroring di Budapest, della prima corsa di Formula Uno svoltasi “di là”.
Non tutto però quadrava. Diversi rappresentanti dell’aristocrazia operaia avevano mutato status: qualcuno nuotava nel management, altri s’erano messi in proprio, trasformati in imprenditori di successo. Di uno segnatamente aveva citato il caso, emblematico, quando l’avevano costretto a presentare il libro apocalittico della Rossanda. Stanco di lavorare sotto padrone, costui aveva impiantato un’azienda di software, i cui prodotti vendeva nell’universo mondo con un valore aggiunto altissimo. Applicava principi di flessibilità ultramoderni: non aveva quasi dipendenti fissi e quelli che lavoravano per lui, tutti giovani, svolgevano collaborazioni libero-professionali su progetti definiti e in tempi delimitati. Erano straordinariamente felici d’essere precari, perché creativi e ben pagati. Gliele aveva cantate a quella stronza.
Eppure già da qualche anno quell’antico compagno, ex delegato molto classista ed ora esempio d’avanzata imprenditorialità, aveva spezzato le catene del vizio e così molti altri che avevano conseguito una qualche promozione sociale, ed anche in America oramai fumavano soltanto i negri e le puttane, e in Italia la Marlboro era diventata la sigaretta dei marocchini e degli albanesi. Lui intanto faceva ancora il sindacalista e ne consumava a stecche. Era rimasto in mezzo al guado.
3.
Il telefonino lo attaccava solo in automobile. Non amava dare spettacolo.
Lì, in macchina, per sei mesi buoni aveva ricevuto il buongiorno, rituale tra le nove e le nove e trenta, prima di arrivare in sede. Convenevoli e tenerezze, ma più che altro le inesauribili querimonie di lei: “Non ne posso più, bisogna trovare una soluzione... Quello che mi dà più fastidio è che non capisce un cazzo. Sono due mesi che non gliela do, con le scuse più assurde. Si lamenta, ma non capisce... Non lo sopporto, non lo sopporto, quella faccia di merda, sempre le stesse frasi.… Stamattina rogava che la camicia azzurra non era stirata. L’ho mandato a fare in culo. Sai che m’ha detto? Indovina! Che questo lavoro mi mette in agitazione, che è meglio se torno in fabbrica. Lo stronzo. Ci andasse lui in fabbrica!”.
Oliviero raccomandava pazienza e prudenza, la calmava, non con le parole dolci che non gli uscivano buone di bocca, quanto con la rievocazione delle scopate meglio riuscite tra le più recenti. Ne lodava il culo, n'esaltava le prestazioni linguistiche, insisteva sulla propria voglia di toccarla, di baciarla, di prenderla, le rammentava i tre giorni e le tre notti che presto avrebbero passato insieme al congresso di Brescia o al seminario d’Ariccia. E lei si rabboniva, si convinceva di esercitare un potere.
Il sibilo odioso della suoneria lo sorprese in questi pensieri e per una frazione di secondo s’illuse.
Ma no, non poteva essere.
E, in effetti, non era.
“Oh - gli dissero quando rispose - devi venire nel cantiere di Morini, alle Porcarecce. E’ morto un operaio, caduto dall’impalcatura”.
“E io che ci vengo a fare?”.
“Ci sono le televisioni. E’ arrivato il presidente della Confedilizia. Devi venire”.
Guardò l’orologio: “Arrivo”.
4.
Alle dieci, al cantiere, c’era un sacco di gente: i rappresentanti sindacali, i segretari di categoria, una decina di compagni della vittima. La famiglia era stata avvertita con ritardo e la moglie non era arrivata. In un canto Morini si intratteneva con il presidente regionale della Confedilizia, dall’altro lato armeggiavano quelli della RAI e di due emittenti locali. Il cadavere era ancora lì, per terra, coperto da un telo bianco. Il sostituto procuratore, scortato dalla giudiziaria, dettava appunti ad un cancelliere e, non molto discosto, un ispettore del lavoro prendeva note.
Ancora due settimane prima, in un’occasione del genere, l’avrebbero menato via alla chetichella senza tante storie, ma quell’incidente era il quarto mortale accaduto nella provincia nel giro di un mese e le vittime del più tragico erano state addirittura tre, insieme sotto una gru, e ancora non si capiva come. Adesso si precipitavano in tanti: a momenti sarebbero sfilati il sindaco, il presidente della provincia, l’assessore regionale all’industria e gli attivisti di Rifondazione, tutti a recitare la commedia del lutto, alcuni a lamentare le carenze degli altrui controlli, altri quelle dei propri organici, altri ancora a protestare vibratamente. Lui, Oliviero, aveva studi da perito industriale, ma si ricordò delle pillole di filosofia che gli avevano ammannito nei gruppetti. Chi l’aveva detto che ad un certo punto la quantità si trasforma in qualità? Engels? Lenin? Non importava, ma così era. Quell’evento, doloroso quanto si vuole, in altri tempi sarebbe stato banale, ma ora, per l’effetto cumulativo, diventava maledettamente importante.
I cronisti cercavano commenti e il magistrato si era negato. Per evitare perdite di tempo si rinunciò all’intervista e gli operatori si acconciarono a riprendere, senza esclusive, una dichiarazione del presidente dei costruttori ed una sua, da segretario regionale della Cgil.
L’imprenditore aveva una faccia da iettatore, o da vampiro, le guance scavate, la fronte bassa, un colorito olivastro, un pizzetto grigio come il vestito, gli occhi torvi infossati. “L’industria edilizia - disse - è la prima a chiedere controlli efficaci contro il lavoro nero e interventi per limitare i rischi. Il lodo che abbiamo firmato all’assessorato regionale con il sindacato dimostra che vogliamo dare una collaborazione piena. Bisogna però evitare la criminalizzazione delle imprese. Io sono il primo a partecipare al lutto delle famiglie e non intendo intervenire sulle inchieste in corso, ma neanche il rispetto più rigoroso delle norme di sicurezza può impedire che qualche incidente accada. Esiste l’errore umano. E anche la fatalità”.
Pronunciata da un figuro di quella fatta, la dichiarazione sortiva l’effetto di un’oscura minaccia.
Oliviero si sentiva a disagio, soprattutto per il vestito da festa che indossava. Nell’attesa si impolverò una manica e disordinò i capelli, ma l’allegra cravatta era sempre lì, in bella vista. “Il sindacato - chiarì - non fa speculazioni, ma ormai è una vera e propria strage. Alle istituzioni, in particolare alla Regione, che ha preso impegni scritti e firmati, dico che è ora di passare ai fatti. Agli imprenditori ricordo che non ci sono soltanto norme di sicurezza da rispettare, ma c’è anche una questione di subappalti, di turni, di straordinari, di ritmi massacranti, di sfruttamento”.
Erano arrivati i corvi di Rifondazione, perciò aveva pensato bene di coprirsi a sinistra, con quella parola arcaica. Ora poteva andarsene.
Salì sull’automobile proprio nel momento in cui lì accanto stava parcheggiando l’assessore regionale, l’amico nemico. Accennò un saluto, da un cenno ricambiato.
5.
Alle undici, puntuale, era nello stabilimento dell’antica industria. Né assemblea né trattativa, si inaugurava il museo storico, l’occasione per la quale s’era agghindato.
Gli svizzeri avevano fatto le cose in grande: avevano adibito a contenitore un capannone di quattrocento metri quadrati diviso in tre saloni, con impianti d'aerazione e condizionamento della temperatura, con un’illuminazione efficiente ed efficace. In mente Oliviero si canticchiò: “La Svizzera... la Svizzera... la Svizzera ... ”. Godeva di un modesto privilegio: con il direttore, il consigliere d’amministrazione arrivato fresco da Losanna, i presidenti della regione e della provincia, il prefetto, il magnifico rettore, il sindaco, il provveditore agli studi, il presidente degli industriali, un senatore, tre deputati, i suoi omologhi di Cisl e Uil e l’onnipresente assessore regionale, faceva corona al curatore, un prestigioso accademico che si profondeva in spiegazioni.
A distanza di un paio di metri seguivano una cinquantina d'individui, più uomini che donne, in parte personaggi d’autorità, ma anche gli immancabili presenzialisti, quelli di cui non si sa bene a che titolo riescano a partecipare a tutte le cerimonie ufficiali.
Dalle pareti della sala d’ingresso penzolavano pannelli fotografici: le immagini degli stabilimenti e dei dirigenti succedutisi nel tempo, accompagnate dall’indicazione di date e dati significativi. Al centro era istallato una sorta di presepio: copie miniaturizzate e funzionanti di macchinari, obsoleti o modernissimi, costosi congegni dimensionati sul mondo di Barbie, prototipi di una Lilliput tecnologica, trituratori, polverizzatori, mescolatori, imbottigliatori, inscatolatori, protetti da teche di lindo infrangibile plexiglas.
Nella seconda sala i cartelloni riproducevano i manifesti che avevano fatto la gloria del marchio, corredati da didascalie che storicamente interpretavano tanto l’evoluzione del prodotto e dei gusti del pubblico quanto il modificarsi, anche nel segno grafico, della comunicazione commerciale. In mezzo un’ampia bacheca esibiva gli albi, le figurine, le raccolte dei punti, i cataloghi dei regali e i regolamenti dei concorsi a premi.
Il terzo ambiente era multimediale e un visore diffondeva il promo: in soli dodici minuti s'illustravano scopo e senso del museo, alternando alle immagini degli oggetti in mostra spezzoni filmici d’epoca, adeguatamente commentati. Un altro apparecchio, all’angolo opposto, proponeva un’antologia della pubblicità televisiva, dagl’interminabili caroselli delle origini agli odierni spot di tre secondi, pressoché subliminali. Nel terzo angolo c’era la zona audio: adoperando un selezionatore ed una cuffia era possibile ascoltare frammenti registrati delle trasmissioni Eiar e Rai sponsorizzate dall’azienda dagli anni Trenta agli anni Cinquanta, ripuliti e restaurati a dovere, senza gracchiate e distorsioni.
Da ultimo, vanto ineguagliabile, fu presentata l’area informatica. Lì, dialogando con l’attrezzo, si potevano reperire e stampare a colori notizie a iosa, grafici, foto, e c’era l’opportunità di copiarsi direttamente in cassette Vhs alcune parti non protette delle quattro ore abbondanti di video immagazzinate, utilizzando una tessera a pagamento scalare. Ma gratuità o facilitazioni erano previste per le scuole e l’università o anche per singoli studenti e studiosi, purché garantiti dall’istituzione.
I discorsi furono tanti e, ringraziando Iddio, brevi, perché ad ognuno la stimolante visita aveva stimolato l’appetito. Tutti ad osannare la multinazionale per l’importante realizzazione, con il sindaco che salutava l’efficace integrazione tra storia dell’industria e storia della città, con il rettore che additava nel museo “un modello esemplare di collaborazione tra impresa e istituzioni della ricerca scientifica”, con il provveditore che prometteva di mandarci a turno tutte le scolaresche della provincia, d'ogni ordine e grado. Chiamato a prendere la parola per la triplice, in omaggio alla più ampia rappresentatività della sua organizzazione, Oliviero si comportò da birichino.
“Mi dispiace - disse - io canterò fuori del coro. Non discuto l’impegno, anche economico, profuso dall’azienda e la qualità scientifica della realizzazione, ma era il minimo che una grande impresa potesse fare come risarcimento per la nostra città. Tutti sanno che, dopo una vertenza assai dura, abbiamo firmato un contratto integrativo soddisfacente sia per la società sia per i lavoratori; ma le critiche che abbiamo fatto allo spostamento fuori regione dei centri decisionali rimangono tutte. Dirò di più. Nel museo non manca qualche accenno al ruolo esercitato dalle maestranze per la crescita dell’azienda e il successo dei prodotti. Forse è poco, tuttavia il riferimento è presente. Non c’è però traccia della lotta del sindacato, non solo per migliorare le condizioni salariali e normative, ma anche per dare un contributo allo sviluppo dell’impresa, spesso intralciato da dirigenze retrive. Io mi auguro che questo vuoto sia colmato e che si possa integrare il museo con uno spazio dedicato alla classe operaia e alle sue storiche battaglie. Posso assicurare fin d’ora la più ampia disponibilità collaborativa delle organizzazioni dei lavoratori”.
Era la seconda volta, nello stesso giorno, che si sorprendeva ad esprimere pericolose posizioni di sinistra, la terza avrebbe cantato il gallo. A cose fatte, se ne sentiva disturbato. “Faccio paura a me stesso” - doveva essere la battuta di un film.
Il pasto inaugurale, servito in piedi, era striminzito e le libagioni limitate. Se qualche invitato avesse abbondato, gli ultimi della fila sarebbero rimasti a stecchetto. Da aperitivo e da accompagno per il salato - tartine con salmone affumicato, gnocchetti al pesto (prodotto dall’azienda), brioche con frittatine agli asparagi di bosco - fungeva un Montecarlo bianco, fresco e liscio. Per dessert si servì una discreta crostata industriale, di quelle a scadenza ravvicinata da conservare in frigo, e si stappò una Malvasia dolce spumante. Tutto qui. A richiesta si poteva ottenere un caffè, ma senza grappa. La classe dirigente non può permettersi pranzi robusti e meno che mai superalcolici, pena l’inefficienza pomeridiana.
Oliviero si prese i complimenti di un paio di campanilisti, massoni: quantunque non nutrissero simpatia veruna per la classe operaia, erano contenti che ne avesse detto quattro agli svizzeri. Lo consolò anche il sorriso complice di una signora elegante, moglie di un generale; ma nessuna delle personalità con cui scambiò qualche chiacchiera osò fare commenti sul suo intervento e i colleghi di sindacato accuratamente lo evitarono.
Notò che a fumare dopo il caffè erano solo in otto su un’ottantina di persone, e più della metà donne.
6.
Davanti alla sede arrivò all’incirca alle tre del pomeriggio, l’orario d’apertura. Sede nuova e bella in un palazzo al centro di una recente lottizzazione d'edilizia residenziale, negozi ed uffici. Uno scatolone bianco, di quelli che facevano incazzare i professori di scuola e le donne in menopausa, senza fronzoli ambientalisti e citazioni postmoderniste, bello.
La Cgil ne aveva acquistato un intero piano, il sesto, quando l’edificio era ancora in costruzione, al prezzo stracciato d'ottocento milioni, un’operazione politica condotta con sapienza e agilità mentale.
Era accaduto dopo il referendum, perso, sulle quote sindacali trattenute per legge dal datore di lavoro, una delle più stupide pannellate della storia. Gli effetti pratici, come già si sapeva prima del voto, erano nulli: la trattenuta sulla busta paga invece che per legge si sarebbe effettuata per contratto. Restava la sconfitta politica; ma Oliviero, nella sua regione, l’aveva trasformata in vittoria.
Per dimostrare al popolo e al viandante l’integra solidità del sindacato, aveva resuscitato metodi d’altri tempi, lanciando una sottoscrizione regionale tra le categorie e le strutture territoriali e denunciando il gravissimo attacco padronale. Anche in quell’occasione si era lasciato andare ad un linguaggio desueto: “…l’offensiva contro le organizzazioni sindacali e contro i diritti di tutti i lavoratori… vogliono far tornare indietro l’intera società …”. Si era sbracciato a gridare il suo allarme in centinaia d’assemblee, aveva perso la voce, ma solo così si galvanizza il movimento.
Aveva commissionato ad un pittore informale il manifesto ed il logo della sottoscrizione e, stranamente, erano venuti bene. Aveva pertanto fatto stampare, in pile immani, coloratissimi quadernetti da cento di madri e figlie, provando, senza successo, a denominarle ticket, termine tanto mondialista quanto impopolare, ma gli operai che versavano il contributo le chiamavano bollette.
A chiunque gli attivisti avevano chiesto un obolo, anche modesto. I più fantasiosi dei funzionari avevano organizzato tombole, pesche, briscole e riffe, i più moderni cene di solidarietà. Era stata una prova di forza ed anche un’opera di bene, igienica e salutista. Alle pensionate e ai pensionati, che costituivano la categoria di gran lunga più forte, s’era data l’opportunità d’impegnare proficuamente le giornate, di sfuggire alla noia che uccide e di obliare una grama vita di rinunce, senza per questo essere costretti a seguire gli stupidi corsi d'ikebana nelle Università della Terza Età. Grazie a questa brillante campagna, nel giro di tre mesi Oliviero aveva potuto celebrare un duplice trionfo, prima quando s’era presentato su tutte le televisioni locali ad annunciare che, grazie alla mobilitazione dei lavoratori, l’obiettivo era stato raggiunto e poi, in pompa magna, quando aveva festeggiato con le autorità e i capi romani l’apertura della nuova sede. Avevano dovuto inchinarsi tutti, anche quelli della segreteria nazionale, per lo più schizzinosi rispetto ai sistemi dei primordi e timorosi dei flop.
In realtà, essendo il sindacato un nido di vipere, neppure in quell’occasione avevano cessato di malignare. Qualcuno aveva insinuato che i conti della sottoscrizione erano gonfiati, e che non era difficile riempire di offerte fasulle i blocchetti, e che il prezzo effettivamente pagato doveva essere comunque assai più basso di quello dichiarato e contabilizzato.
In effetti Oliviero era stato prim’attore di un altro memorabile scontro che aveva salvato il costruttore del palazzo da una crisi esiziale. Questi aveva impegnato notevoli risorse finanziarie, umane e tecnologiche per l’impianto di una centrale elettrica, dopo aver vinto un grosso appalto, ma poi erano arrivati gli scassacazzi dell’ambientalismo ed era cominciato un lungo tira e molla politico e giudiziario, con i cantieri che chiudevano, riaprivano, richiudevano e ririaprivano. L’Enel aveva concluso che era meglio non farne nulla.
Era stato merito della Cgil, seguita senza molta convinzione dalle altre organizzazioni, l’aver sbloccato con la lotta ogni resistenza, salvando così non solo le imprese appaltatrici, ma anche il lavoro di centinaia di operai. Tra il sindacato ed il costruttore non c’era dunque stato alcun oscuro baratto, semmai un’oggettiva convergenza di interessi, alla luce del sole. Ma tanto era bastato a quei luridi per fare congetture, illazioni ed allusioni e uno aveva usato perfino la parola oscena e scurrile: tangenti.
Tangenti, tangenti… si fa presto a dir tangenti. Se anche ci fosse stato uno sconto sull’acquisto della sede, si sarebbe trattato d’altro, non di tangenti. Al sindacato si era persa perfino la cognizione della parola, ma loro, i padroni, sapevano ancora che cosa vuol dire gratitudine.
7.
Non bussò - deteneva le chiavi - ma al baracchino che ospitava portineria e centralino, cimelio della vecchia sede, era già attiva la figlia del capitano, la siciliana dagli occhi profondi, più neri dei neri capelli.
A trentasette anni, singola impunita, passava per una gran mangiatrice di cazzi ed era per Oliviero l’unico vuoto di una ricca collezione. Escludendo le racchie e le sposatissime, c’era sempre riuscito con tutte quelle che passavano dal sindacato: tettone dei lanifici, gemebonde intellettuali del sindacato scuola o telefoniste adolescenziali. Era stata dapprima la conferma del suo fascino, dappoi del suo potere. Inoltre doveva possedere qualche arma ch’egli stesso sconosceva, giacché anche le più riottose la davano senza tante cerimonie a lui, tracagnotto, mentre l’amico suo, col fisico da sportivo e gli occhi azzurri, aveva dovuto rimetterlo nel fodero parecchie volte. Forse, nelle loro confidenze, le donne si passavano voce che scopava benissimo. Con la figlia del capitano non ci aveva neppure provato. Oliviero era di sinistra e, in quanto tale, privo di pregiudizi, ma un siciliano è pur sempre un siciliano e non gliela si può fare sotto il naso.
Era ridanciana di primo pomeriggio la mora. Chissà a chi l’aveva succhiato.
“Ciao, segretario!”.
Che fa, sfotte?
8.
C’era anche il padre, il capitano per l’appunto, titolo che tutti gli tributavano e lui non disdegnava. Era arrivato men che ventenne durante la guerra, nello sbandamento dell’esercito, ma il grado vero doveva essere stato di caporale, al massimo di sergente. Vantava anche una milizia partigiana, pagava la tessera dell’Anpi e al corteo del 25 aprile marciava in prima fila, ma di documentato c’era solo una presenza, peraltro breve, tra i fuggiaschi della montagna. A detta di un altro superstite, eroico ma pettegolo, era sparito dopo le prime scaramucce, nascosto nel letto di una vedova ingorda, una culona di fattoria.
A liberazione avvenuta, era venuto ad abitare in città, operaio della famosa industria. S’era sposato tardi, con una compagna di lavoro, indigena, ma quell’unica figlia che n’era nata aveva sin da piccina occhi sì penetranti, labbra sì carnose, capelli sì neri, che ognuno la diceva “siciliana”, del tutto ignorando la componente genetica autoctona.
Sindacalizzato prudente negli anni duri, il capitano aveva dato il meglio di sé come sindacalista. Se l’era conquistata sul campo, la fiducia dei lavoratori, ancor prima dell’autunno caldo, col fare la voce grossa nelle riunioni, con l’organizzare blocchi e picchetti, con il redarguire i timidi e strapazzare i crumiri; era diventato un vero dirigente grazie ad un cocktail perfetto di qualità tra cui faceva spicco un’atavica, meridionale furbizia. Carriera rapida, ma del tutto regolare: delegato, distaccato, segretario comprensoriale di categoria, segretario regionale degli alimentaristi. Era sempre riuscito a scansare gli incarichi confederali che fanno perdere il legame con la base.
Oliviero gli doveva il suo ingresso in Cgil. Feroce contro gli estremismi, il capitano era anche il più impegnato a recuperare i ragazzi traviati, specie se svegli. Li adocchiava nei cortei, attaccava bottone nelle pause, e quelli, calamitati dalla fama di resistente e dal fascino dell’operaio di fabbrica, sedotti dallo scilinguagnolo, dalla gestualità, dalla prossemica, così inusuali tra la gente del luogo, erano tentati dalle vaghe promesse che s'incuneavano nelle crepe della loro malferma ideologia: “Il sindacato ha bisogno di forze giovani ... nel sindacato c’è spazio per tutti”. Farsi sindacalisti non era lo stesso che fare la rivoluzione, ma sempre meglio che faticare. Talora c’era bisogno curarli, come si fa con le pere butirre raccolte acerbe dal ramo e distese a maturare nel fieno o nell’erica, ma non con Oliviero ed il suo amico. Figli di contadini, erano astuti come gatti, avevano capito tutto e subito. A tre giorni dal colloquio s’erano già impiantati alla Camera del Lavoro.
Il suo capolavoro il capitano lo realizzò nel ‘90, alle soglie della quiescenza, trattando e firmando da segretario categoriale l’integrativo d’azienda. Per la prima volta, dopo un decennio di prepensionamenti e di spostamenti del lavoro fuori della fabbrica, si apriva la possibilità di nuove assunzioni. Ai dipendenti in regola con il minimo pensionabile si offriva l’opportunità, andandosene, di lasciare in eredità il posto ai figli, attraverso un marchingegno che scavalcava le regole, a quel tempo ancora rigide, del collocamento. Le confederazioni avevano fatto ottimamente la loro parte: avevano protestato contro i diritti conculcati dei tanti giovani disoccupati che non avevano genitori in azienda, ma avevano lasciato correre.
Dopo questa vittoria, sintesi di combattività, realismo e clientelismo, il capitano si sarebbe potuto concedere una vecchiaia tranquilla, a grattarsi, compilare i cruciverba, annaffiare l’orto, imbeccare i canarini. Invece dopo sette anni stazionava ancora lì; s’era fatto eleggere nella segreteria dei pensionati, ma era una copertura, in realtà passava la giornata a rompere le palle. Oliviero sospettava che stesse in sede anche per controllare la figlia, ma soprattutto si sentiva oppresso dai buoni consigli che dispensava.
Anche adesso ci provava. Gli si piazzò davanti e gli chiese: “Devi dirmi qualcosa?”.
“Io? Niente!” - fece Oliviero.
“Io sì. Stai attento!”
Oliviero lo guardò fisso e lo liquidò con una formula: “Mezza parola e basta…”.
Doveva essere un motto paramafioso ed era stato proprio il capitano a farglielo conoscere come segno di un’intesa totale e tempestiva. Ma in verità lui degli ammiccamenti, delle ellissi, delle reticenze del capitano il più delle volte non capiva un cazzo e l’espressione che aveva usato era solo un contentino. I vecchi pretenderebbero da chi li ascolta che si comprenda il loro ragionare tortuoso e inconcludente, ma per fortuna sono facili da imbrogliare. Non c’è bisogno di capirli davvero, basta far finta, basta mezza parola.
9.
Alle 15 e 10, al suo numero diretto, il capocordata gli comunicò: “La situazione precipita. Ci sono un paio d'arrabbiate pronte a montare uno scandalo, a creare rogne anche al segretario generale, se insiste a difenderti. Devi dimetterti senza condizioni. Accamperai motivi personali.”.
Reagì: “Insomma, per salvarvi il culo, mi lasciate nella merda”.
“Che parole grosse! Intanto avrai ancora due mesi di stipendio, poi prenderai il Tfr. Quando le acque si saranno placate ti troveremo una sistemazione, nel pubblico o nel privato. Guadagnerai più di adesso senza doverti trasferire a Roma o a Napoli”.
“Avete messo su un’agenzia per il lavoro?”.
“Non eri tu a sostenere che un sindacato moderno dovrebbe gestire direttamente il collocamento? Con te lo faremo”.
Lo prendeva per i fondelli, l’intellettuale di merda.
“E se non mi dimettessi?”.
“C’è lì Enrico che informerà tutti del procedimento disciplinare e proporrà la tua sospensione da ogni incarico. Non ti conviene”.
“Vaffanculo” sbottò Oliviero e abbassò la cornetta.
10.
Telefonò a Carlo, l’assessore: “ Devi convincere i tuoi a dimettersi insieme con me. Deve dimettersi tutta la segreteria, diranno di voler favorire un ricambio nel gruppo dirigente. Non chiedo altro. Mi basta salvare la faccia”.
“Hai sentito Guglielmo?”.
“Mi ha chiamato lui per darmi la bella notizia da Roma”.
“ Non so come aiutarti. Con Luisa ho rotto, al sindacato non ho più rapporti. E poi chi di spada ferisce...”.
Questa volta Oliviero sentiva di meritarselo. Pertanto salutò educatamente, quasi cordialmente.
La durezza della politica aveva distrutto un’amicizia adolescenziale, di quelle che in teoria dovrebbero essere le più tenaci. I mozziconi fumati in coppia, le mezze birre dalla zozzona, le scazzottate coi fascisti, gli scioperi a gatto selvaggio, le occupazioni ormai non contavano più nulla. E neppure la notte passata insieme in camera di sicurezza, ai tempi del processo Calabresi.
Erano usciti, con la cinquecento di una ragazza di buona famiglia, a fare scritte, tante e grandissime, piazzate nei luoghi strategici, municipio, tribunale, stazione, poste. “La strage è di stato”, “Se Calabresi è innocente Tamara è vergine”, “Calabresi assassino”, in nero; oppure “compagno Pinelli, ti vendicheremo” in rosso. S’erano divertiti ad inventare: “Calabresi fascista, o ti butti dalla finestra o ti faremo la festa”. Una stronzata, a giudicarla dopo più di vent’anni, ma allora sembrava una trovata spiritosa: da qui la decisione di farla sotto il naso degli sbirri, sui muri del loro palazzo.
La R di “finestra” sbavava ancora vernice vermiglia sul marmo della questura all’arrivo dei caramba che li acchiapparono, due della bassa Italia, particolarmente felici per averli sorpresi lì, a far fessi quelli della squadra politica e l’intera Ps.
Carlo e Oliviero avevano storie parallele: insieme nel Comitato Disoccupati alla Camera del Lavoro, tutti e due segretari regionali di categoria, tutti e due nella segreteria confederale, una coppia affiatata, complice e complementare. Erano nella cordata di Guglielmo, l’intellettuale borghese di buone letture, specializzato nel decorare di lustrini teorici e dialettici ogni svolta tattica, ogni contratto al ribasso, ogni troiata opportunistica, sempre in linea con la linea vincente, costantemente interpretata da sinistra, ed era toccato a lui, da segretario regionale uscente, promosso o rimosso a Roma, di dire l’ultima sulla successione. Aveva scelto Carlo, il bello: il sindacalista del futuro non può avere la pancetta.
Oliviero se l’era attaccata al dito e aveva iniziato contro il suo amico una guerra senza quartiere; s’era alleato con chiunque, con quelli di Essere Sindacato, con gli ex socialisti, con i nani e coi banditi pur di fargliela pagare, aveva fatto linguimbocca coi cislini, incoraggiato il dissenso metalmeccanico e ancora di peggio. Quando Carlo volle mettere in segreteria Luisa, la sua nuova ambiziosa compagna, Oliviero raccolse firme su un documento, due pagine tirate via. Si lamentavano i ritardi nella costruzione del nuovo sindacato dei diritti, si denunciava il rischio che si incrinasse il rapporto con i lavoratori nei punti strategici dell’economia regionale e nelle aree di crisi. Erano rimasticature e ruminamenti di altri documenti, interventi e relazioni, ma il succo era veleno. Quasi alla fine si leggeva: “Non giovano al sindacato, nella selezione dei gruppi dirigenti regionali, scelte che obbediscono a logiche personali e private piuttosto che ad un’attenta valutazione della capacità, della competenza e dell’impegno”. Dei centotredici membri del direttivo regionale lo avevano firmato in più di cinquanta e l’impuntatura di Carlo avrebbe forse determinato una guerra lunga e sanguinosa. Per fortuna al partito qualcuno aveva ancora saggezza: Carlo si sarebbe candidato alla Regione, assessore in pectore, e Oliviero lo avrebbe sostituito al sindacato. Avrebbe però dovuto tenersi la serpe in segreteria, Luisa, la donna dello scandalo.
11.
Alle quattro chiamò un interno: “Sarete contenti adesso”.
“Di che?” - rispose la donna.
“Mi cacciano”.
“Io sarei stata contenta se non fosse accaduto nulla di quello che è successo” - fece Luisa con spocchia.
Di nuovo Oliviero abbassò brusco e rabbioso la cornetta.
12.
Aveva convocato i più fidi membri della segreteria, Ireneo, Isidoro, Filippo e Giampiero. Pretendeva che almeno loro si dimettessero insieme a lui. Consentiva solo Ireneo, ma forse era un trucco, poneva la condizione che tutti lo seguissero.
Oliviero alzò la voce: “Se nel sindacato contate qualcosa, lo dovete esclusivamente a me. Quest’atto di solidarietà non vi costa niente, ma, se me lo rifiutate, parlerò io”.
Giampiero non gridava, ma la voce era ferma: “Non ti serve minacciare. Ci hai sempre autorizzato e coperto. Noi siamo con te, come sempre, ma non puoi obbligarci ad aprire una crisi nel sindacato per un tuo problema personale”.
“Dovrei essere il primo io, in tutta Italia, a pagare per una questione di fica?!”.
Filippo, il più intellettuale del gruppo, provò a consolarlo con la prospettiva storica: “Siamo entrati nelle Seconda Repubblica ed è arrivato il modello americano. Hai visto le rogne di Clinton?”.
Oliviero si spazientì: “Si scopa in Comune, in Regione, in Provincia, a Montecitorio, a Palazzo Chigi, alla Cisl, alla Uil, al Cna, Confesercenti, Confcommercio e alla Confindustria. Quel deputato fascista che hanno preso con i viados sta ancora a pontificare contro gli immigrati e nessuno dice niente. Scommetto che al Quirinale anche il baciapile se lo fa mettere bellamente in culo. Perché l’America dovrebbe arrivare solo qui, solo per me ? Ve la do io l’America! A tutti!”.
Isidoro gli disse: “Puoi anche avere ragione, ma non possiamo sfasciare l’organizzazione. Abbiamo delle responsabilità nei confronti dei lavoratori”.
Oliviero fece una smorfia, una risata sardonica, abbassò il tono: “Gliene frega un cazzo ai lavoratori delle nostre beghe! Convocate assemblee nelle fabbriche e negli uffici. Mettiamo la questione a referendum. Vedrete che l’ottanta per cento mi darà ragione. Le donne per prime!”.
Ireneo accennò un sorriso, decisamente incongruo. Poi si fece silenzio. Il fumo ammorbava la stanza, Oliviero aveva aspirato una Marlboro dietro l’altra. Disse: “Vado sulla veranda, a prendere una boccata d’aria”.

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Parte seconda

1.
“Nel mondo dei senzadio s’è perso il senso del peccato, ma il colpevole c’è sempre, almeno d’istigazione”.
“L’istigazione non è facile provare in dibattimento, ci vuole movente, occasione, vantaggio diretto o indiretto….”.
“Diretto. Indiretto. E’ ora di smetterla con questi garantismi da campionato dilettanti”.
“Il responsabile è lei, dottor Trifasi. Chieda pure il supplemento. Ammesso che il GIP glielo conceda, per lei saranno solo grane. Non si fonda un’accusa sul niente”.
“Sul niente? Io non sono nichilista. Né teorico né pratico. Dio si nasconde forse, ma risorge. Comunque sia, non intendo promuovere un’accusa, solo un supplemento d’indagine. Gli elementi non mancano: i due metri di distanza, la perizia, le discordanze, benché lievi, tra i testimoni… E poi c’è lui, il presunto suicida. Uno così non si ammazza. Meno che mai per vergogna.”.
“La smetta con le giaculatorie, i filosofemi e le generalizzazioni arbitrarie e risparmi almeno il sepolto. Lei, in passato, ha fatto indagini eccellenti, ma stavolta le sue idee sono confuse. Prima parla d’istigazione, adesso invece mi enumera i precari indizi di un improbabile omicidio”.
“Le indagini per cui mi loda sono nate anch’esse da confusione. Confuse sono però le intuizioni, le idee sono limpidissime. Di una cosa soprattutto ho la certezza: un colpevole c’è sempre, il male esiste”.
“Lei fa tutto un intruglio. Il male non ha nulla a che vedere con il nostro mestiere. Noi cerchiamo il reato, non il peccato. Ricordi comunque che per gli avvisi ha solo ventiquattro ore ”.
2.
Nelle carte gli appigli non si trovavano. Le ultime telefonate, tutte registrate, non lasciavano presagire l’esito catastrofico, ma comprovavano inquietudine. Si era decifrata ogni allusione, nulla appariva oscuro.
Le testimonianze sull’ultima riunione convergevano sulla sostanza, pur mantenendo quelle lievi discordanze che escludono un’intesa preventiva e semmai confermano il ruolo attivo, selettivo e in qualche modo deformante della memoria. Apparivano sincere e complete, perfette: i quattro della segreteria non avevano taciuto neppure le minacce d'Oliviero, ma giuravano di non aver afferrato l’allusione.
La ricostruzione degli antefatti risultava fin troppo semplice in grazia alle dichiarazioni di Eleonora, l’amante, ricche di particolari con corollario d'acute interpretazioni: una storia degna della più squallida telenovela.
Tutto era accaduto nel torno di due mesi. L’adultera era rimasta incinta del marito, con il quale non aveva mai cessato di usare maritalmente, anche se teneva il ganzo all’oscuro. Quest’incidente ne aveva fatto una maddalena: confessata la sua relazione tra lacrime purificatrici, aveva ottenuto il perdono del cornuto, che le concedeva, ora che si sentiva forte, una fiducia piena.
Non aveva preteso ch’ella rientrasse in fabbrica, aveva anzi considerato essenziale al suo trionfo che, al sindacato, ostentasse una professionale correttezza nei confronti di Oliviero ed a tutti rendesse evidente il suo pieno ritorno alla santità del vincolo coniugale. Veniva a prenderla ogni sera e i due amoreggiavano coram populo come fidanzatini.
Oliviero già da qualche tempo si mostrava stanco della tresca e in giro si era dichiarato pronto al volo per nuovi lidi, ma ora sentiva il suo orgoglio oltraggiato e ferito. Non si può ben dire se ne fosse più piagato il maschio o il dirigente, ma la colpa era sua che non sapeva tenere distinti i ruoli.
La donna gli aveva detto: “E’ finita. Aspetto un bambino”; e alla perfida domanda “Di chi è?”, urtata, non aveva dato risposta. Aveva rigettato seccamente ogni richiesta di un incontro chiarificatore.
Senza timidezze, nell’interrogatorio, Eleonora aveva osato arguire che all’uomo premeva solo una trombata, necessaria e sufficiente a ristabilire ruoli e poteri: il maschio, il dirigente era lui, era lui a comandare e solo lui poteva decidere quando e come smettere. Poi, forse, l’avrebbe lasciata in pace.
“Una troia psicologa” - pensò l’inquisitore, rileggendo il verbale.
Proprio per questo, aveva aggiunto la donna, non poteva più concedersi; ne sarebbe andata di mezzo la sua dignità.
Il commento irritava Trifasi ad ogni rilettura: “Più sono troie e più parlano di dignità”.
Le manovre di Oliviero erano state varie ed insistenti. La più frequente era di chiamarsela in ufficio e di esibire il rigonfiamento pubico: “Senti quant’è duro!”.
L’indagatore si compiaceva del racconto, poiché vi trovava la convalida di una sua antica teoria. “Il pene - soleva dire con sussiego nei vaniloqui d’ufficio - è intelligente e colto, ricorda, pensa, riflette, risolve, non lo muovono gli istinti naturali quanto l’orgoglio della ragione. Il desiderio è propriamente volontà pervertita dall’intelletto e il peccato sessuale non è incontinenza, semmai malizia e tracotanza. Si può apprendere a controllare l’organo. A me non s’alza mai fuori dal letto matrimoniale”.
Eleonora aveva poi riferito di tante altre molestie patite in venti giorni d’inferno. La tormentava, una volta piangeva e pregava, un’altra faceva l’amoroso, un’altra ancora la investiva di male parole. Poi, quando prese a telefonarle a casa, la sera, la mattina presto, il sabato, la domenica e i festivi, ad ingiuriare, a minacciare, la donna aveva preso le sue contromisure: “Mi ha insegnato lui, che registrava tutte le conversazioni”.
3.
Era bello per il dottor Trifasi poter sentire e risentire di persona i nastri ben incisi, senza essere costretto ad interpretare le comiche sintesi scritte e le arbitrarie illazioni dei carabinieri, obbligatorie quando si dovevano sbobinare e controllare ore di intercettazioni, chiacchiere per la massima parte inutili alle indagini.
Le cassette erano due, di quarantacinque minuti per banda, ed arrivavano da Roma. Eleonora, infatti, raccolte una decina di conversazioni, particolarmente compromettenti, aveva rivolto un ultimatum al segretario regionale: “Se non la smetti, ricorro agli organi di garanzia”. Oliviero aveva replicato con sprezzo: “Non me ne frega un cazzo”.
La donna si era consigliata con Luisa, che, udite le registrazioni, aveva esclamato indignata: “E’ gravissimo! Questo non è un affare privato, è una questione politica fondamentale. Con quale coerenza il sindacato si batterà contro le molestie e i ricatti sessuali nei luoghi di lavoro, quando tollera la presenza di maiali tra i suoi dirigenti? Dovresti denunciarlo all’autorità giudiziaria, ma, se non vuoi uno scandalo pubblico, andremo a Roma e parleremo con le compagne”.
Eleonora, come risultava dal verbale, aveva acconsentito, “in obbedienza ad un dovere politico e sindacale”. Così le cassette erano giunte a Roma dove le occhiute sindacaliste che si occupavano della campagna sul sesso nei luoghi di lavoro, avevano aumentato la dose: “E’ intollerabile!”.
I nastri erano dunque pervenuti, insieme con una circostanziata denuncia, alla Commissione Nazionale di Garanzia. I tempi dell’istruttoria interna erano stati rapidissimi e le giustificazioni d'Oliviero non avevano convinto. La proposta era netta: espulsione. L’unica alternativa offerta al reo era di dimettersi da ogni incarico, immediatamente e senza condizioni. I capi avevano provato a far passare una diversa soluzione, un declassamento ed un trasferimento a Roma in un Centro Studi, o a Napoli, segretario degli edili, ma il tentativo era stato bloccato dall’intransigenza delle femmine.
Il dottor Trifasi, nel riguardare le carte, si rammentava come perfino lui, abituato a terrorizzare indagati e testi, si sentisse in imbarazzo al cospetto delle dichiaranti che, senza alcuna pietà per il morto, sciorinavano frasi fatte contro il maschilismo violento e incolto.
Volle risentire un pezzo di telefonata.
“M’hai rotto il cazzo, puttana. Ti faccio tornare in fabbrica nel giro di una settimana e ti faccio mettere in mobilità nel giro di un mese. E quello stronzo di tuo marito se lo può sognare di entrare al Comune in pianta stabile. La seguirò di persona la pratica. Tu e il magnaccia mi avete usato per i vostri interessi, ora devi pagare il tuo prezzo, bagascia. Altrimenti ti ridurrò a fare bocchini in autostrada”.
L’inquisitore, abituato dal mestiere, non provava alcun sentimento o risentimento di fronte alle turpi parole dell’uomo, evidentemente fuori di testa, ma si consolava con le sue paradossali banalità: “Non è un irragionevole delirio, è, piuttosto, la ragione che delira. Quando si seguono ideologie che pretendono di realizzare la felicità sulla terra e si smarrisce il senso del limite, tutto è possibile”. Tuttavia, sul piano processuale, le registrazioni non fornivano alcun appiglio per la ricerca di un colpevole, anzi corroboravano la probabilità che la causale del suicidio fosse proprio il terrore dell’ignominia.
4.
Un punto oscuro c’era: la caduta a più di due metri dal palazzo, oltre il marciapiede, sulla carreggiata. In quell’orrendo scatolone bianco c’era una veranda ad ogni piano, nella stanza più importante, uno spazio cubico rientrante che all’esterno dava l’impressione della scansia di una libreria a muro. La veranda si affacciava su una strada interna alla lottizzazione, che conduceva ai parcheggi.
La cosa più stravagante ed intrigante restava il racconto dei due muratori anziani che del volo erano i testimoni oculari. In quell’assolato pomeriggio di maggio erano i soli a faticare, incaricati dall’impresa di qualche piccolo aggiustamento e del riordino d'attrezzi e materiali. Non dovevano essere lucidi nel momento topico: il bianco vinello che sovente trangugiavano da un bottiglione impolverato toglieva forse la sete e sorreggeva forse nella fatica, ma ottundeva le capacità di percepire e comprendere. Le loro dichiarazioni sarebbero state del tutto inattendibili, se non fossero state miracolosamente convergenti e confermate da riscontri. L’uno e l’altro asserivano di non aver visto lo stacco. Avevano sollevato gli occhi quando il corpo era già a mezz’aria e disegnava, a loro dire, strani movimenti. Uno dei due, ignorante quanto l’altro, ma appassionato alle gare televisive di tuffi, aveva fatto scrivere nel verbale che sembrava un “doppio salto mortale carpiato con avvitamento”. Come quel corpo riuscisse in un breve tratto a mantenere l’angolo retto, a roteare, ad avvitarsi su se stesso, l’uomo non era stato in grado di spiegarlo. L’altro testimone, sicuramente più credibile, aveva parlato soltanto di un giro curioso, che non ricordava bene e non sapeva descrivere. Erano però concordi nel sostenere che il corpo era piombato sulla strada con il capo in giù e che la testa era rimbalzata a terra più di una volta, come se fosse una palla di gomma.
Era fin troppo ovvio che i due si erano reciprocamente influenzati e che entrambi dovevano aver risentito degli effetti dell’alcol, se non fosse il fatto che all’autopsia il cadavere era risultato miracolosamente intatto, come se non avesse subito alcun urto o come se il colpo fosse stato attutito da una protezione. La causa della morte risultava essere la rottura di un’arteria del cervello, con rapida emorragia interna.
Le perizie davano del volo e della caduta interpretazioni contrastanti. Avevano fatto lanci di manichini e misurazioni accuratissime, come ai tempi di Pinelli. Uno dei periti si spingeva al punto di ritenere compatibile che il corpo fosse stato lanciato, ma non escludeva altre ipotesi. Gli altri due avevano prospettato come più probabile uno scenario di questo tipo: l’uomo era salito sulla ringhiera e lì era rimasto in equilibrio per qualche secondo, poi si era proiettato in avanti, come in un tuffo. Restavano però dei dubbi: la distanza del punto di caduta risultava comunque inspiegabile senza ipotizzare, quanto meno, un rimbalzo.
5.
L’inquirente in tutto il palazzo aveva un solo amico, tanto diverso da lui, un collega sostituto che in gioventù aveva fatto il Sessantotto nella sinistra estrema, trotzkista. Dell’antica carica rivoluzionaria non conservava quasi nulla, se non un vaghissimo populismo, che lo spingeva ad una certa comprensione per i poveracci e ad una qualche antipatia per i potenti. Non era tuttavia un magistrato d’assalto, di quelli che occupano le prime pagine dei giornali e i notiziari televisivi con la loro invadenza. Laico e professionale, aveva conquistato negli anni una grande capacità diplomatica ed un grande senso della misura.
Formavano una strana coppia: l’uno cattolico tradizionalista con venature d'esistenzialismo nichilistico, l’altro marxista disincantato e critico. Curiosi l’uno dell’altro e talora convergenti nei giudizi sull’attualità, stavano insieme volentieri, soprattutto nelle pause d’ufficio e qualche volta anche fuori. La visita di Trifasi nella stanza dell’amico al Palazzo di Giustizia e soprattutto il fatto che menasse seco un incartamento erano comunque un evento eccezionale e sorpresero pertanto il suo collega.
“Tu sai che non chiedo mai consigli e seguo solo la mia coscienza, ma questa volta ho un dubbio. Sento che, nel caso del sindacalista, c’è qualcosa d'oscuro, c’è puzza di reato, ma non trovo una motivazione plausibile per la richiesta di un supplemento”.
Insieme consultarono le carte e ne discussero per una mezzora buona. Alla fine l’amico, memore del suo marxismo antiburocratico, disse a Trifasi: “L’unica cosa che si può provare è che i capi sindacali oltre al culo di pietra hanno anche la testa di gomma “.
L’inquirente seguì il consiglio ed archiviò.

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Epilogo

Un anno dopo, nel salone della sede regionale della CGIL si fece una pubblica commemorazione.
Al funerale nessuno della segreteria nazionale aveva voluto parlare e l’unico a pronunciare nel discorso d’addio parole affettuose era stato l’antico amico assessore. Ora invece gli oratori erano tanti.
L’uomo venuto da Roma ci mise quaranta minuti ad illustrare il contributo di Oliviero alla linea nazionale del sindacato, ma nessuno riuscì a capire in che cosa consistesse. Il presidente della giunta regionale ne esaltò la passione civile e quello della Camera di Commercio si dilungò sulla feconda collaborazione nella lotta contro l’usura.
Riparlò Carlo, che ne approfittò per stringere in un fascio il trentennale del Maggio francese e l’anniversario del suicida: “ Del Sessantotto ha portato nel sindacato la volontà di cambiamento, depurandola da ogni estremismo”.
Il rituale toccò la punta del ridicolo e del macabro verso la fine, quando fecero parlare un’operaia tessile dell’attenzione d'Oliviero alle condizioni delle donne lavoratrici e quando il nuovo segretario regionale, venuto da fuori, annunciò che un busto di bronzo era stato commissionato ad un artista perché fosse collocato all’ingresso di quella sede che Oliviero aveva voluto. Ne mostrò, già pronto, un calco di gesso: il petto in fuori ed i baffoni rivelavano una curiosa somiglianza con Giuseppe Stalin.
La sera il TG regionale mise in onda un servizio e l’ipocrita con barbetta che lo presentò disse di Oliviero che era morto esattamente un anno prima, suicida “per ragioni che sono state tenute rigorosamente riservate”.
Subito dopo, per uno scherzo del destino, andava in onda un servizio della Sede Regionale RAI sugli infortuni di lavoro che ricorrentemente funestavano il territorio. Il nuovo segretario accusava il lavoro nero nell’edilizia e il presidente dei costruttori negava che gli imprenditori locali ne fossero in qualche modo partecipi.
“Il problema, caro ingegnere, - disse il sindacalista - è nei subappalti. Le vuol veder con i suoi occhi le squadre di meridionali e di africani che arrivano nei pulmini? Ce n’è pochissimi in regola e lavorano anche di notte per sfuggire ai controlli. Venga da noi, alla CGIL regionale, si affacci alla veranda del mio ufficio!”.
Il volto del costruttore, normalmente livido, si fece paonazzo ed i lineamenti conobbero un repentino stravolgimento che le telecamere impudicamente ed imperfettamente registrarono.
“Io!? - disse con concitazione - a quella veranda??!? Ci si affacci lei!”. (S.L.L.)

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