Che ci è andato a fare Ratzinger a Cipro, luogo da cui sono certo passati i primi apostoli per fondarvi una delle prime chiese, ma in cui i cristiani sono quasi tutti greco-ortodossi, e tra maroniti e latini i cattolici non superano il 2 per cento? La risposta è probabilmente nell’entusiastica accoglienza dell’arcivescovo greco-ortodosso di Cipro, Chrysostomos II.
Una diversità di accenti anche forte tra i due sull’Islàm, era inevitabile, data la permanente occupazione turca nell’isola. Nella cerimonia ecumenica che ha aperto la visita di Tatzinger, svoltasi nel sito archeologico di Paphos, Chrysostomos l’ha definito «barbara» chiesto al Papa di Roma di «cooperare attivamente» per la causa cipriota. Ma Ratzinger ha fatto finta di niente, ha chiesto ai ciprioti pazienza, li ha sollecitati a cercare “con pazienza” l’armonia con i vicini islamici. E, a scanso di equivoci, ha voluto dire la sua sull’uccisione a Istanbul del vescovo Padovese, il più potente dignitario cattolico in Turchia: si è detto convinto che l’Islàm e il governo non c’entrino molto.
La chiave dell’intervento papale è stata l’esortazione all’ecumenismo cristiano. Richiamandosi a Paolo, l’Apostolo delle genti leggendario fondatore della chiesa cipriota, il Papa ha esaltato “l’unità di tutti i discepoli di Cristo”. Del resto già in aereo aveva dichiarato che il suo era un “messaggio religioso e non politico”. Non sappiamo se resisterà alle richieste turco-cipriote di un incontro inevitabilmente più politico che religioso, ma gli crediamo. Il suo viaggio è tutto interno alla dialettica che attraversa il mondo cristiano, in particolare in Europa e il tema chiave è quella che i seguaci di Ratzinger chiama la “sfida del relativismo” e che meglio si potrebbe chiamare “sfida della libertà”. Ai tempi di Wojtila la Chiesa cattolica amava attribuirsi un vocazione centrista. I suoi ideologi ripetevano una sorta di giaculatoria: “Le Chiese ortodosse si oppongono alla modernità, le Chiese protestanti vi si arrendono, la Chiesa cattolica aspira a governarla”. Ma oggi la crisi del capitalismo internazionale sembra aver indebolito queste ambizioni egemoniche, non tanto per la vicenda, pur gravissima, dei preti pedofili e della protezione ad essi in vari modi accordata dalla gerarchia, quanto per la sempre più evidente partecipazione della finanza cattolica ai grandi giochi criminali che la crisi hanno determinato.
Questo spiega il progetto di una sorta di fronte del “tradizionalismo” per cui sembra lavorare la diplomazia religiosa del Vaticano e che riavvicina fortemente Roma con il suo papato, Mosca con il suo patriarcato e altre chiese nazionali ortodosse come quella greco-cipriota. L’ecumenismo cristiano di Ratzinger sembra infatti essere selettivo: dentro sembrano esserci oltre alle chiese ortodosse anche quelle protestanti americane più chiuse e fondamentaliste, quelle che furono la forza di Bush, ma non il protestantesimo più coerente con le sue origini, quello della “libera interpretazione” dei testi biblici e del primato della coscienza individuale. In questo progetto l’Italia ha un ruolo importante: i papisti la considerano un feudo sicuro, non solo per le provvidenze statali che, crisi o non crisi, alimentano le casse e la politica estera del Vaticano, ma anche perché emblematica di una nuova alleanza trono-altare che avvicina sempre più la Chiesa cattolica italiana alle principali chiese ortodosse. La legislazione recente sulla fecondazione artificiale e quella imminente contro il testamento biologico sono esempi e bandiere che possono rafforzare una simpatia tra i preti italiani tradizionalisti con i “papa” e i “pope” di tanti stati europei.
E’ un’impostazione che condiziona non solo il dialogo ecumenico ma anche quello interreligioso, più orientato verso l’Islàm che non verso l’ebraismo che, soprattutto nella diaspora, è piuttosto liberale.
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