MA L'ALTERNATIVA A MARCHIONNE C'È
Il manifesto, 16 giugno 2010
1) La democrazia del pensiero unico
Non c'è alternativa. Questa sentenza apodittica di Margaret Thatcher per la quale è stato creato anche un acronimo (Tina: there is no alternative) è la silloge del cosiddetto «pensiero unico» che nel corso dell'ultimo trentennio ha accompagnato le dottrine più o meno «scientifiche» da cui sono state orientate, o con cui sono state giustificate, le scelte di volta in volta dettate dai detentori del potere economico: prima liberismo (a parole, con grande dispendio di diagrammi e formule matematiche, ma senza mai rinunciare agli aiuti di stato e alle pratiche monopolistiche); poi dirigismo e capitalismo di stato (per salvare banche, assicurazione e giganti dell'industria dai piedi d'argilla dal precipizio della crisi); per passare ora a un vero e proprio saccheggio, usando come fossero bancomat salari, pensioni, servizi sociali e «beni comuni», per saldare i debiti degli Stati messi in crisi dalle banche appena salvate. Così la ricetta che non contempla alternative oggi è libertà dell'impresa; che va messa al di sopra di sicurezza, libertà e dignità, ovviamente dei lavoratori, inopportunamente tutelate dall'art. 41 della Costituzione italiana.
A enunciarlo in forma programmatica è stato Berlusconi, subito ripreso dal ministro Tremonti e, a seguire, dall'autorità sulla concorrenza, che non ha mai mosso dito contro un monopolio. A tradurre in pratica quella ricetta attraverso un aut aut senza condizioni, subito salutato dagli applausi degli imprenditori giovani e meno giovani di Santa Margherita Ligure, è stato l'amministratore delegato della Fiat, il Valletta redivivo del nuovo secolo. Eccola. Limitazione drastica (e anticostituzionale, ma per questi signori la Costituzione va azzerata; e in fretta!) del diritto di sciopero e di quello di ammalarsi.
Una organizzazione del lavoro che sostituisce l'esattezza cronometrica del computer alla scienza approssimativa dei cronometristi (quelli che un tempo alla Fiat si chiamavano i «vaselina», perché si nascondevano dietro le colonne per spiare gli operai e tagliargli subito i tempi se solo acceleravano un poco per ricavarsi una piccola pausa per respirare). Una turnazione che azzera la vita familiare, subito sottoscritta da quei sindacalisti e ministri che due anni fa erano scesi in piazza per «difendere la famiglia»: la loro, o le loro, ovviamente. È un ricatto; ma non c'è alternativa. Gli operai non lo possono rifiutare e non lo rifiuteranno, anche se la Fiom, giustamente, non lo sottoscrive. L'alternativa è il licenziamento dei cinquemila dell'Alfasud - il «piano B» di Marchionne - e di altri diecimila lavoratori dell'indotto, in un territorio in cui l'unica vera alternativa al lavoro che non c'è è l'affiliazione alla camorra.
Per anni, a ripeterci «non c'è alternativa» sono stati banchieri centrali, politici di destra e sinistra, sindacalisti paragovernativi, professori universitari e soprattutto bancarottieri. Adesso, forse per la prima volta, a confermarlo con un referendum, sono chiamati i lavoratori stessi che di questo sopruso sono le vittime designate. Ecco la democrazia del pensiero unico: votate pure, tanto non c'è niente da scegliere.
2) Piani folli.
Effettivamente, al piano Marchionne non c'è alternativa. Nessuno ci ha pensato; neanche quando il piano non era ancora stato reso pubblico. Nessuno ha lavorato per prepararla, anche quando la crisi dell'auto l'aveva ormai resa impellente. Nessuno ha mai pensato che sarebbe stato necessario averne una, anche se era chiaro da anni che prima o poi - più prima che poi - la campana sarebbe suonata: non solo per Termini Imerese, ma anche per Pomigliano.
Ma a che cosa non c'è alternativa? Al «piano A» di Marchionne. Un piano a cui solo se si è in malafede o dementi si può dar credito. Prevede che nel giro di quattro anni Fiat e Chrysler producano - e vendano - sei milioni di auto all'anno: 2,2 Chrysler, 3,8 Fiat, Alfa e Lancia: un raddoppio della produzione. In Italia, 1,4 milioni: più del doppio di oggi. La metà da esportare in Europa: in un mercato che già prima della crisi aveva un eccesso di capacità del 30-35 per cento; che dopo la sbornia degli incentivi alla rottamazione, è già crollato del 15 per cento (ma quello della Fiat del 30); e che si avvia verso un periodo di lunga e intensa deflazione.
Quello che Marchionne esige dagli operai, con il loro consenso, lo vuole subito. Ma quello che promette, al governo, ai sindacati, all'«opinione pubblica» e al paese, è invece subordinato alla «ripresa» del mercato, cioè alla condizione che in Europa tornino a vendersi sedici milioni di auto all'anno. Come dire: «il piano A» non si farà mai.
Non è una novità. Negli ultimi dieci anni, per non risalire più indietro nel tempo, di piani industriali la Fiat ne ha già sfornati sette; ogni volta indicando il numero di modelli, di veicoli, l'entità degli investimenti e la riduzione di manodopera previsti. Tranne l'ultimo punto, che era la vera posta in palio, degli obiettivi indicati non ne ha realizzato, ma neanche perseguito, nemmeno uno. Ma è un andazzo generale: se i programmi di rilancio enunciati da tutte le case automobilistiche europee andassero in porto (non è solo la Fiat a voler crescere come un ranocchio per non scomparire) nel giro di un quinquennio si dovrebbero produrre e vendere in Europa 30 milioni di auto all'anno: il doppio delle vendite pre-crisi. Un'autentica follia.
Dunque il «piano A» non è un piano e non si farà. L'alternativa in realtà c'è, ed è il «piano B». Se a chiudere non sarà Pomigliano, perché Marchionne riuscirà a farsi finanziare da banche e governo (che agli «errori» delle banche può sempre porre rimedio: con il denaro dei contribuenti) i 700 milioni di investimenti ipotizzati e a far funzionare l'impianto - cosa tutt'altro che scontata - a cadere sarà qualche altro stabilimento italiano: Cassino o Mirafiori. O, più probabilmente, tutti e tre. La spiegazione è già pronta: il mercato europeo non «tirerà» come si era previsto
Hai voglia! Il mercato europeo dell'auto è in irreversibile contrazione; l'auto è un prodotto obsoleto che nei paesi ad alta intensità automobilistica non può che perdere colpi: «tirano», per ora, solo i paesi emergenti - fino a che il disastro ambientale, peraltro imminente, non li farà recedere anch'essi - ma le vetture che si vendono là non sono certo quelle che si producono qui: né in Italia né in Polonia.
3)L’alternativa è la conversione ecologica
Anche se la cosa non inciderà sulle scelte dei prossimi mesi, è ora di dimostrare che non è vero che non c'è alternativa. L'alternativa è la conversione ambientale del sistema produttivo - e dei nostri consumi - a partire dagli stabilimenti in crisi e dalle fabbriche di prodotti obsoleti o nocivi, tra i quali l'automobile occupa il secondo posto, dopo gli armamenti. I settori in cui progettare, creare opportunità e investire non mancano: dalle fonti di energia rinnovabili all'efficienza energetica, dalla mobilità sostenibile all'agricoltura a chimica e chilometri zero, dal riassetto del territorio all'edilizia ecologica. Tutti settori che hanno un futuro certo, perché il petrolio costerà sempre più caro - e persino le emissioni a un certo punto verranno tassate - mentre le fonti rinnovabili costeranno sempre meno e l'inevitabile perdita di potenza di questa transizione dovrà essere compensata dall'efficienza nell'uso dell'energia. L'industria meccanica - come quella degli armamenti - può essere facilmente convertita alla produzione di pale e turbine eoliche e marine, di pannelli solari, di impianti di cogenerazione. Poi ci sono autobus, treni, tram e veicoli condivisi con cui sostituire le troppe auto, assetti idrogeologici da salvare invece di costruire nuove strade, case e città da riedificare - densificando l'abitato - dalle fondamenta.
Ma chi finanzierà tutto ciò? Se solo alle fonti rinnovabili fosse stato destinato il miliardo di euro che il governo italiano (peraltro uno dei più parsimoniosi in proposito) ha gettato nel pozzo senza fondo delle rottamazioni, ci saremmo probabilmente risparmiati i due o tre miliardi di penali che l'Italia dovrà pagare per aver mancato gli obiettivi di Kyoto. Ma anche senza incentivi, le fonti rinnovabili si sosterranno presto da sole e i flussi finanziari oggi instradati a cementare il suolo, a rendere irrespirabile l'aria delle città, impraticabili le strade e le piazze, a riempirci di veleni per rendere sempre più sterili i suoli agricoli, a sostenere un'industria delle costruzioni che vive di olimpiadi, expo, G8, ponti fasulli e montagne sventrate potranno utilmente essere indirizzati in altre direzioni. È ora di metterci tutti a fare i conti!
Ma chi potrà fare tutte queste cose? Non certo il governo. Né questo né - eventualmente - uno di quelli che abbiamo conosciuto in passato; e meno che mai la casta politica di qualsiasi parte. Continuano a riempirsi la bocca con la parola crescita e stanno riportandoci all'età della pietra.
La conversione ecologica si costruisce dal basso «sul territorio»: fabbrica per fabbrica, campo per campo, quartiere per quartiere, città per città. Chi ha detto che la programmazione debba essere appannaggio di un organismo statuale centralizzato e non il prodotto di mille iniziative dal basso? Chiamando per cominciare a confrontarsi in un rinnovato «spazio pubblico», senza settarismi e preclusioni, tutti coloro che nell'attuale situazione non hanno avvenire: gli operai delle fabbriche in crisi, i giovani senza lavoro, i comitati di cittadini in lotta contro gli scempi ambientali, le organizzazioni di chi sta già provando a imboccare strade alternative: dai gruppi di acquisto ai distretti di economia solidali. E poi brandelli di amministrazioni locali, di organizzazioni sindacali, di associazioni professionali e culturali, di imprenditoria ormai ridotta alla canna del gas (non ci sono solo i «giovani imprenditori» di Santa Margherita); e nuove leve disposte a intraprendere, e a confrontarsi con il mercato, in una prospettiva sociale e non solo di rapina.
Il tessuto sociale di oggi non è fatto di plebi ignoranti, ma è saturo di intelligenza, di competenze, di interessi, di saperi formali e informali, di inventiva che l'attuale sistema economico non sa e non vuole mettere a frutto.
Certo, all'inizio si può solo discutere e cominciare a progettare. Gli strumenti operativi, i capitali, l'organizzazione sono in mano di altri. Ma se non si comincia a dire, e a saper dire, che cosa si vuole, e in che modo e con chi si intende procedere, chi promuoverà mai le riconversioni produttive?
FIAT. L'ABBAGLIO IDEOLOGICO
Il manifesto, 23 giugno 2010
1) La fiducia delle banche e delle borse. C’è da fidarsi?
Il Foglio di sabato scorso ha dedicato un'intera pagina a commentare un mio articolo sulla crisi della Fiat di Pomigliano corredando il servizio con il pugno di Lotta Continua, il gruppo in cui ho militato negli anni settanta e che si è dissolto 34 anni fa. Troppa grazia. La cosa ha offerto a molti miei critici l'occasione per dare la stura ai più triti stereotipi sugli anni 70 e sull'ambientalismo, quasi non avessero mai letto o sentito parlare prima di green economy o di riconversioni produttive. Per Stefano Cingolani: «in certe assemblee gauchiste c'era chi si alzava proponendo che la Fiat fornisse brandine agli ospedali». Che assemblee avrà mai frequentato Cingolani in quegli anni? Non certo l'assemblea operai-studenti di Mirafiori, dove si parlava di cose molto serie, che hanno fatto la storia del paese. Scrive Sergio Soave: «Viale ripropone la tesi dell'imminente crollo del capitalismo». Ma quando mai? E riassume il mio pensiero così: «una nuova sintesi di deindustrializzazione e mangiatori di fragoline di bosco». Francesco Forte mi attribuisce «la teoria per cui il capitalismo è un imbroglio e l'economia di mercato una mistificazione». Magari lo penso; ma non l'ho certo scritto e non sta tra le premesse del mio discorso. Analogamente Gianni Riotta, sul Sole24ore, mi accusa di «dare del venduto a Cisl e Uil e quasi tutta la Cgil», e addirittura, al premio Nobel Paul Krugman, per aver scritto che per dar credito al piano della Fiat per Pomigliano bisogna essere in malafede o dementi. Sul dementi mi attengo al giudizio degli interessati. Ma si può essere in malafede senza essere venduti. Basta dar credito senza dare spiegazioni a cose che non lo meritano. E' quello che fa Riotta e, con lui, quasi tutti i sostenitori del piano Marchionne: non si chiedono se il piano è credibile. Su questo punto diamo la parola al Foglio.
Scrive Ernest Ferrari: «D'accordo, il piano di sviluppo targato Marchionne è irrealizzabile». Risponde Bruno Manghi: «Quella di Marchionne è una scommessa che nessuno può prevedere con certezza come finirà». Ammette Riccardo Ruggeri, uno che conosce la Fiat «dall'interno»: «Sui sei milioni di macchine Viale non ha tutti i torti». E aggiunge: «Magari tra non molto Marchionne chiederà altri sacrifici, perché il mercato non tira. Marchionne l'ha fatto capire più di una volta». Poi precisa: «ho paura che stia tornando la moda dei volumi (di vendite)piuttosto che dei talenti...anche alla Volkswagen hanno sposato la teoria dei volumi; ma ci hanno messo 15 anni, investendo una montagna di soldi». «Insomma, c'è aria di bluff?» chiede l'intervistatore. E lui risponde: «Marchionne fa quel che può».
Anche Cingolani si chiede: «Chi può garantire che le auto non restino sui piazzali? E quanto costeranno i modelli sfornati dalle catene di montaggio?» Domande senza risposta. Cingolani le affronta con un suo personale «piano B»; questo sì, datato agli anni '70: quando i cosiddetti paesi emergenti adottavano le tecnologie abbandonate dai paesi più industrializzati, e questi passavano a produzioni a più alto valore aggiunto (Era la teoria di Hirschmann delle "anatre volanti", che si alzano in volo in ordine, una dietro l'altra). Ma oggi Cina, India e Brasile hanno, sì, costi del lavoro e ambientali più bassi; ma anche livelli tecnologici paragonabili ai nostri e capacità di ricerca e sviluppo superiori (anche perché da noi scuola e ricerca sono state gettate alle ortiche). Inoltre, senza impianti di assemblaggio a portata di mano, l'innovazione tecnologica e organizzativa non ha verifiche. Quindi, perché il distretto automobilistico torinese possa mantenere i suoi atout in campo motoristico e dello styling, una parte del montaggio dovrà comunque restare in Italia. Ma non è detto che tocchi a Pomigliano. Nell'assemblaggio, più che altrove, a contare sono i costi. Lo conferma Michele Magno: «La sorte dello stabilimento campano è legata a un drastico abbassamento dei costi». L'unico a non nutrire dubbi sul piano Marchionne è Francesco Forte. E sapete perché? Perché «il piano è stato valutato positivamente dalle banche e dalla borsa»: due istituzioni che hanno raggiunto la credibilità più bassa della loro storia.
2) La fabbrica e il territorio
Fatto sta che, se è improbabile riuscire a vendere sei milioni di auto all'anno (un raddoppio della produzione) sui mercati di un'industria sovradimensionata e oggetto di una feroce concorrenza non solo tra gruppi industriali, ma anche tra Stati, l'aumento della produzione in Italia da 600mila a 1,4 milioni di vetture è ancora più improbabile; soprattutto perché questa produzione dovrebbe per due terzi essere smerciata in Europa. Le sorti di Pomigliano sono legate a questi obiettivi. Qualcuno ha provato a spiegare come raggiungerli? O si vuole far credere che l'unico vero problema è l'abnorme tasso di assenteismo e che un maggiore impegno contro di esso rimetterebbe le cose a posto?
Persino Riotta introduce qualche variabile in più. Oltre all'assenteismo, scrive «per giocare nella Coppa del mondo del lavoro» bisogna fare i conti con «clientele, performance scadenti, familismo amorale, raccomandazioni». A cui io aggiungerei doppio e triplo lavoro (ma non sarà un problema di salari insufficienti?), degrado del territorio, monnezza (da non dimenticare), sfacelo amministrativo, corruzione, collusioni politiche, camorra. Tutti problemi che non si sono certo fermati ai cancelli della fabbrica, ma che sono ben presenti al suo interno. Nel management più ancora che tra le maestranze. Pensare di isolare la fabbrica dal territorio e di risolvere i suoi problemi con la disciplina del lavoro è utopia vana e crudele.
Nel 1968 la Fiat pensò di inquadrare con una disciplina di ferro 15 mila nuovi assunti, messi al lavoro a Mirafiori tutti d'un colpo, senza preoccuparsi di che cosa sarebbe successo fuori della fabbrica: nel tessuto urbano di una città che tra l'altro era "sua", ma dove per i nuovi assunti non c'era nemmeno un posto per dormire. Ne nacque una lotta che ha sconvolto gli stabilimenti del gruppo per i successivi dodici anni. Adesso si pretende di mettere in riga, con un accordo sui turni e i ritmi di lavoro e con i limiti posti al diritto di scioperare e ammalarsi, uno stabilimento industriale i cui problemi nascono soprattutto dal degrado del tessuto sociale circostante. Non dice niente, per esempio, il fatto che a presidiare il gazebo installato a sostegno dell'accordo ci fosse il sottosegretario Cosentino, incriminato per camorra, ma "immunizzato" dal Pdl?
Nessuno, prima di Prodi, aveva ancora fatto notare che la "rieducazione" degli operai di Pomigliano - per usare il termine carcerario che ben si adatta al modo in cui l'establishment italiano, politico, sindacale, imprenditoriale e giornalistico, sta affrontando il loro futuro - è già stata tentata due anni fa: con la sospensione dell'attività lavorativa, l'invio forzato di tutte le maestranze a un corso di formazione, il riadeguamento degli impianti, la rimessa a nuovo dei capannoni. Senza risultati.
3) I bluff di Marchionne
Chi può credere, allora, che Marchionne voglia ritentare l'esperimento, investendoci sopra 700 milioni? Rischiando anche di mettere in crisi i suoi rapporti con il partner polacco, che in questa fase è uno dei pochi atout a sua disposizione? Non è forse più sensato ritenere, o almeno ipotizzare, che Marchionne voglia sbarazzarsi di Pomigliano, oltre che di Termini Imerese; e non potendo farlo senza mettere in crisi i suoi rapporti con governo, opposizione, sindacati e maestranze - magari provocando anche una rivolta tra la popolazione - cerchi solo il modo per farne ricadere su altri la responsabilità? Se non sarà l'esito del referendum (verosimilmente non lo sarà), sarà la Fiom. Se non sarà la Fiom sarà l'iniziativa di base; o il "disordine" del territorio; o i contenziosi in tribunale; o un ricorso alla Corte Costituzionale. O, più semplicemente, il prossimo aggiornamento sulla situazione dei mercati. Intanto, a segnare un punto, è stata la politica antioperaia di tutto il governo.
Sembra però che la conversione ambientale dello stabilimento di Pomigliano, o di altre fabbriche in crisi, urti contro la centralità della produzione automobilistica (una volta la centralità era della classe operaia, ma i tempi sono cambiati). «E' indubbio - scrive Michele Magno - che il settore automobilistico, pur maturo sul piano merceologico e tecnologico, continui a incarnare lo spirito del tempo»; perché «continua a svolgere un ruolo cruciale sia nella formazione del Pil, sia nella dinamica occupazionale»; e perché «il cuore delle innovazioni organizzative...continua a pulsare qui».
Nessuno però ha proposto di chiudere il settore automobilistico dall'oggi al domani. Basterebbe non strafare con i volumi, come raccomanda anche Ruggero. E non gravare un gruppo già provato con un peso che probabilmente non può sostenere. «E' in gioco - continua Magno - il futuro di quel che resta della classe operaia meridionale». D'accordo. Ma, proprio per questo, non sarebbe bene pensare a delle alternative per uno stabilimento così a rischio?
Per verificare se è vero che l'azienda vorrebbe sbarazzarsi di Pomigliano bisognerebbe poterla mettere di fronte a una alternativa praticabile, esigendo impegni precisi a garanzia del processo di conversione. Non certo di assumerne la gestione, per la quale vanno comunque individuati soggetti, attori e culture aziendali differenti. Bensì la cessione degli impianti e il finanziamento della transizione. Ma oggi un'alternativa del genere non c'è. Nessuno ci ha pensato; e nessuno sembra neanche in grado o disposto a pensarci; anche se l'adozione di un'alternativa praticabile converrebbe sicuramente sia alla Fiat, che ai lavoratori, che al paese. E anche al pianeta.
Ma nessuno potrebbe mai pensare di avviare la riconversione di uno stabilimento industriale alla green economy con una semplice stretta della disciplina di fabbrica, come molti pensano - e sperano - che si possa fare invece trasferendo la Panda a Pomigliano. Perché una conversione produttiva di quella portata e con quelle finalità è proprio l'opposto di quell'idea "larvatamente autoritaria" di chi dice «Farò io il vostro bene» pensando di poter «pianificare le svolte dello sviluppo», come sostiene Bruno Manghi sul Foglio e Riotta ripete sul suo giornale.
Infatti, se non si può pensare di cambiare una fabbrica solo con la disciplina, occorre passare attraverso la mobilitazione delle forze sane del territorio, una discussione sulle ragioni della conversione, un coinvolgimento delle risorse intellettuali delle comunità interessate. Per poi procedere a verifiche di mercato, a progettazioni di massima, e alle battaglie per impegnare i diversi livelli del governo locale e nazionale. Sono cose che non si preparano né in un giorno né in un anno; c'erano però da anni molti motivi per cominciare a lavorarci. Ma non è mai troppo tardi. Perché se ilpiano Marchionne è un bluff, bisognerebbe evitare di ritrovarsi nella situazione di Termini Imerese, dove ogni giorno si escogitano altri bluff con il solo scopo di «tener buoni» gli operai lasciati sul lastrico.
Nessun commento:
Posta un commento