10.6.10

"In morte di Elio Vittorini" di Leonardo Sciascia (da "Giovane critica" - n.8 primavera 1966)


La notizia che Vittorini è morto me l’ha data Calogero Boccadutri: domenica mattina, tredici febbraio, appena uscito di casa. L’ultima volta che ho visto Vittorini abbiamo parlato, appunto, di Boccadutri. Come ogni volta mi ha domandato del vecchio compagno – “E Boccadutri, che fa Boccadutri?” – ma stavolta mi ha raccontato con più particolari la storia di come lo aveva conosciuto. Mandato dal Partito comunista a Caltanissetta, con una valigia piena di pubblicazioni clandestine, vi era arrivato di notte. Era tempo di guerra e gli toccò di passare la notte nella sala d’aspetto della stazione: affamato, paralizzato dal freddo. Appena fatto giorno salì in centro, dove già la sera prima avrebbe dovuto incontrare una persona che non conosceva e che non lo conosceva. E Vittorini ancora si chiedeva come avesse fatto Boccadutri a individuarlo così immediatamente e sicuramente, ad avvicinarglisi senza quelle precauzioni che allora erano elementari, considerando che un errore di persona poteva portare al carcere direttamente. Vittorini disse a Boccadutri della sua fame: e Boccadutri, che viveva solo, subito gli preparò un piatto di spaghetti. Il ricordo di quel piatto di spaghetti, alle otto del mattino, lo divertiva e lo commuoveva. E a sentirgliela raccontare a me veniva di pensare che attraverso Boccadutri, attraverso quel ricordo, Vittorini toccava uno dei punti dolenti della sua storia. Perché quando Togliatti con pesante ironia, liquidò le ultime battute della sua polemica con Vittorini intitolandole Vittorini se n’è ghiuto e suli ci ha lassato, era – appunto come Togliatti intendeva – Vittorini ad essere rimasto solo: ma non per aver perduto la compagnia di uomini come Togliatti, ma quella di uomini come Boccadutri.

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