La guerra partigiana nel ternano
E’ di scena il fascismo, soprattutto in tv: documentari e fiction, talk show politici e spettacoli leggeri. Tutto questo parlarne e presentarlo ha forse lo scopo di “normalizzarlo”, di renderlo accettabile. Intanto, sotterranea ma non troppo, s’avanza una rilettura della Resistenza partigiana che ne ridimensiona l’importanza militare e politica e mette in luce lo spirito di vendetta e la crudeltà che l’avrebbero caratterizzata, soprattutto nella componente comunista. Uno dei terreni prediletti di questa avanzata è la “storia locale”, in genere affidata a dilettanti pretenziosi, sponsorizzati dalle amministrazioni conquistate dalla destra specie nel Nord Italia. Il modello è Il sangue dei vinti di Pansa, il cui schema viene applicato ai diversi territori. La tesi, grosso modo, è la seguente: fascisti e repubblichini non erano sempre le spie e i criminali che si racconta e la loro persecuzione, che giungeva fino all’omicidio, era spesso immotivata, frutto perverso di odio politico o privati rancori; la documentazione, sovente ricavata da pochissime fonti, serve solo a corroborarla.
A questo genere letterario appartengono i libri dell’avvocato Marcello Marcellini, I giustizieri.1944:la brigata “Gramsci” tra Umbria e Lazio (Mursia 2009) e Un odio inestinguibile. Primavera: partigiani e fascisti tra Umbria e Lazio (Mursia 2010). Essi non segnalano uno sfondamento già avvenuto (l’Umbria è ancora considerata “rossa”), vorrebbero prepararlo: l’obiettivo è la delegittimazione degli eredi del Pci, che continuano a guidare la città. Lo strano è che la reazione del Pd, della Cgil, dell’Arci, di Rifondazione sia stata quasi nulla e piuttosto debole sia apparsa perfino quella dell’Anpi. A tenere il punto sono rimasti alcuni gruppi giovanili. E “micropolis”.
Esce ora per la CRACE di Narni La storia rovesciata. La guerra partigiana della brigata garibaldina “Antonio Gramsci” nella primavera del 1944, di Angelo Bitti, Renato Covino e Marco Venanzi, un volume corposo (circa 400 pagine) ma tutt’altro che pesante, ricco, interessante, pieno di cose (cronologia, documenti, foto, cartine) e di sorprese. Il libro è, anche, lezione di storiografia: all’improvvisatore che pretende di fare storia solo perché ha frequentato un archivio (o due) si replica con una ricostruzione che, senza perdere vivacità narrativa e argomentativa, mostra di che lacrime grondino la ricerca, l’uso di tutte le fonti e la loro analisi critica.
Alle vicende del tempo di guerra (ma anche ai successivi strascichi giudiziari) è dedicata la seconda parte del libro, affidata a Bitti e Venanzi. Il primo rievoca, utilizzando prevalentemente fonti giudiziarie, il ciclo di rappresaglie e controrappresaglie originate dai rastrellamenti effettuati dai tedeschi tra marzo e maggio 1944. I fascisti ne escono fuori non solo come spie e delatori, ma anche come assassini e torturatori in proprio. I più la fanno franca, anche i responsabili dei crimini più gravi: non ci sono “rese dei conti” dopo la liberazione di Terni e l’amnistia di Togliatti, interpretata estensivamente da parte di una magistratura non epurata, fa il resto. Venanzi provvede a una organica ricostruzione della vicenda della Gramsci, con un titolo che richiama uno dei motti più densi dell’antimilitarismo di sinistra: “guerra alla guerra”. Mentre Marcellini si basava quasi esclusivamente sulle testimonianze d’accusa nei processi a carico dei partigiani, Venanzi mette a confronto codesta fonte “viscida” con una grande quantità di materiali, che ne ridimensionano la portata. Nel racconto emergono le figure chiave (da Celso Ghini al gerarca Di Marsciano), il rapporto tra partigiani italiani e slavi, gli episodi più significativi anche per i risvolti umani.
Valeva la pena di usare tanto impegno per confutare Marcellini? “Distruggere per costruire” – soleva dire Mao: la distruzione implica la critica, la ricerca e il ragionamento, è già costruzione. Vale per il lavoro di Bitti e Venanzi, che è assai più di una risposta a Marcellini, ma segna un punto nella storiografia della Resistenza, non solo ternana.
A dare forza e senso politico al libro è però soprattutto la prima parte (La storia rovesciata) di Renato Covino, che nettamente distingue tra revisionismi: la revisione storiografica, molla del progresso scientifico, e il “rovescismo”, la tendenza a trasformare i “buoni” di ieri nei “cattivi” di oggi a fini politici. Covino rammenta l’irrigidimento che rappresentò la lettura togliattiana della Resistenza come Secondo risorgimento e guerra patriottica e l’arricchimento alla conoscenza che rappresentarono in tempi diversi l’affermazione che “la Resistenza divide” o il libro di Pavone che ne documentava i caratteri di guerra civile e di guerra di classe.
Una verifica concreta è offerta a Covino dal caso Terni. All’inaridirsi della lettura resistenziale-operaia della storia cittadina tipica del Pci sono state date due risposte: la revisione critica che trova uno dei punti più alti nella Biografia di una città di Portelli e si esprime nei lavori di Canali, Gallo, Bovini e Porcaro, oltre che dello stesso Covino; il rovescismo, di cui Marcellini è solo l’ultimo esemplare e che non riguarda solo la Resistenza, ma anche l’identità industrial-operaia della città, di cui si rivendicano perfino le origini papaline.
Sotto la giunta Ciaurro si giunse a divulgare queste “storie” con opuscoletti diffusi nelle scuole. L’obiettivo era (e continua ad essere) farle diventare senso comune per costruire su queste basi il “cambio”: non tanto un cambio politico, ma di gerarchie sociali, con il sacrificio definitivo delle componenti operaie. E’ una sirena che tenta anche i dirigenti del Pd. Il che spiega i loro imbarazzati silenzi.
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