3.2.13

Lucia, tutto si fa per te. Alfredo Giuliani sui “Promessi sposi”.

Renzo (Nino Castelnuovo) e Lucia (Paola Pitagora)
in una versione televisiva dei "Promessi Sposi"
Da centocinquant'anni I Promessi Sposi è un romanzo di successo. Su questo punto c'è poco da dire; ha avuto sì, fin dall'apparizione, sporadici detrattori e critici insofferenti, ma in nessun momento ha visto offuscata la sua popolarità. L' autore ha ottenuto quel che voleva: che tutti lo leggessero, incliti e plebei, anime laiche e anime pie, moderati e refrattari. Centocinquant'anni di successo ininterrotto sono un bel colpo, ci leviamo il cappello.
E' un fatto che prima del Manzoni una prosa narrativa moderna, buona ai molteplici usi del romanzo, non si trova, e non si trova perché non c'è.
Ci sono le straordinarie poesie narrative, in dialetto milanese, di Carlo Porta; e ci sono le teorie, le aspirazioni alla prosa narrativa, che animano i tentativi e le discussioni degli scrittori romantici riuniti nel Conciliatore (1818-19), i Pellico i Borsieri i Di Breme e via dicendo. Si sa, dal Porta e dal Conciliatore Manzoni ha tratto spunti e stimoli non trascurabili, come li ha tratti dagli economisti, dagli storici, dai romanzieri inglesi, dai moralisti francesi, dai barocchi di casa nostra.
Incredibilmente composita, stratificata, agglutinante fu l'operazione narrativa di Manzoni. Egli riscrisse, rielaborando e metamorfosando, una quantità di fonti eterogenee, con mirabile capacità di sintesi e anche col gusto di parodiare. Il fatto luminoso è la scrittura naturale, splendida di toni, calma e vivace, dei Promessi Sposi; che alterna cupezze e orrori a soavità edificanti; che sa scivolare dalla malizia bonaria al severo moralismo, dal comico al metafisico.
Detto questo, così alla buona e appena per pro-memoria, possiamo domandarci: qual è la formula segreta del Manzoni narratore? La domanda è tanto più legittima se si valuta senza tergiversare il peso ideologico del romanzo. Che lo si voglia o no, e so che a dirlo chiaro e tondo si passa per grossolani, I Promessi Sposi è un romanzo cattolico. Quello del Manzoni sarà un cattolicesimo democratico-liberale, venato di giansenismo, malinconico e per nulla trionfante; ciò non toglie che nessun personaggio del romanzo, neppure il più scellerato, ha la benché minima intenzione o possibilità di mettere in dubbio la verità della fede (la sola volta, che una simile idea affiora, suscitata dalla disperazione, è subito bandita come una follia inconcepibile). Una religiosità così dichiarata e pervadente non spiega affatto il fascino esercitato dal romanzo anche su coloro che magari, senza avversione, serenamente, quella religiosità la guardano dall' esterno, quale professione possibile ma non obbligatoria.
Ora, il segreto dei Promessi Sposi è semplice e superbamente burlesco. Manzoni racconta una storia per dire, dal principio alla fine: sarebbe meglio che tutto questo non succedesse. Ma siccome è successo che i potenti hanno fatto angherie agli umili, sono successe le carestie e le devastazioni delle guerre, e c' è stata la peste che ha scatenato abiezioni e vicende spaventose (tutte cose di ieri che potrebbero capitare di nuovo domani), io non posso evitare di raccontarvele. Posso però evitare che don Rodrigo, un tirannello qualsiasi ma bene ammanigliato, stupri una certa Lucia Mondella, contadinotta-operaia. Certo, sarebbe meglio che tali voglie infami non salissero al sangue dei don Rodrigo; ma tant'è, i nobilotti soperchiatori si permettono di queste "passioni". E io farò in modo di contrastarli e di farli punire dalla Provvidenza.
E' così che il romanzo, nel suo nucleo, è la storia di una violazione mancata, di un tentativo di stupro, concepito per capriccio e oltraggiosamente programmato per scommessa, che terra e Cielo si accordano di stornare e mandare a vuoto. Noi, intendiamoci, ammiriamo il genio del Manzoni che lungo questo filo di commedia ha architettato un avvicendarsi grandioso di eventi. E sempre con l' aria di tentennare la testa e scuotere la coscienza per significare che il benedetto/dannato mondo, con tanti guai che produce, sarebbe meglio non esistesse (ma se così vuole la Provvidenza...). Stando così le cose, è superfluo discutere, dopo averne preso atto, il cattolicesimo di Manzoni, altissimo baluardo eretto contro qualsiasi pretesa di fondare idee morali per se stesse, nell'immanenza; contro la pretesa di capire il "guazzabuglio" del cuore umano (è scritto nella Bibbia che il cuore dell'uomo è fraudolento) senza appellarsi alla "sanzione religiosa".
Nel capitolo XVII delle Osservazioni sulla morale cattolica si legge questo passo: "Il punto di riposo per l'uomo, in questa vita, è nella concordia della sua volontà con la volontà di Dio sopra di lui..."; concordia problematica assai. Siffatto riposo l'uomo Manzoni chissà se l'abbia mai avuto davvero. Il Manzoni autore dei Promessi Sposi certamente sì, sia pure per procura. Egli ne attribuì l'esperienza non soltanto ai suoi personaggi sublimi, il cardinale Federigo, padre Cristoforo, l'Innominato convertito, ma naturalmente anche ai suoi prediletti protagonisti Renzo e Lucia, personaggi mediocri, ai quali ultimi è anzi affidato "il sugo di tutta la storia", che notoriamente ha questo tenore: bisogna tenersi fuori dai guai con la condotta più cauta possibile; ma se i guai vengono ugualmente, raddolcirli con la fiducia in Dio (che "li rende utili per una vita migliore"). Come si vede, tale ingente buonsenso è lo stessissimo valore, cambiato in spiccioli, delle Osservazioni sulla morale cattolica. Eppure, fa un effetto che, per essere troppo accomodante, suona ambiguamente derisorio (come per una rassegnazione meno convinta che opportuna).
Nel recente e godibilissimo saggio Amica ironia (Garzanti), Guido Almansi se la prende, a buon diritto, con la maniera troppo scoperta e inequivoca usata a volte dal Manzoni per strizzare l'occhio al lettore. Se lo scrittore dice bianco perché il lettore interpreti immediatamente nero, siamo di fronte a un tipo di ironia elementare, "tirata a lucido", fondata sull'antifrasi. Quando Manzoni afferma ironicamente, per esempio, che i soldati spagnoli "insegnavan la modestia alle fanciulle" io capisco subito che invece attentavano alla loro virtù. Questa ironia troppo esplicita non morde e diletta poco. E' vero, Manzoni pecca di queste ironie che danno nel faceto. Ma è altrettanto vero che è capace di sarcasmi assai più sottili. Prendiamo l' esempio di Gervaso, il fratello "sempliciotto" (insomma un po' scemo) di Tonio; i due, come ricorderanno tutti i lettori del romanzo, fanno da testimoni nella comica scena del matrimonio che Renzo e Lucia vorrebbero celebrare di forza davanti a don Abbondio. Il tentativo non riesce per la consueta inettitudine della tremante Lucia e per la prontezza di don Abbondio nell'impedirle di "pronunziare intera la formola". Ne segue un clamoroso scompiglio e la fuga notturna dei protagonisti dal paese, nonché la curiosità generale di sapere che cosa fosse veramente successo in casa del curato: "Gervaso, a cui non pareva vero d'essere una volta più informato degli altri, a cui non pareva piccola gloria l'avere avuta una gran paura, a cui, per aver tenuto di mano a una cosa che puzzava di criminale, pareva d'esser diventato un uomo come gli altri, crepava di voglia di vantarsene".
Anche Almansi ammetterà che questo tipo di ironia, accumulata con un bellissimo crescendo frase per frase, è assai diversa, è tutta giocata oggettivamente all'interno del racconto. Potrei citare molti altri esempi, ma non è qui il punto. La vera, grande ironia del Manzoni sta nel concepire e nutrire un fortissimo dubbio circa il valore del genere "romanzo" nell'atto stesso di costruirne uno con la massima cura e con la complessità che conosciamo.
L'ambiguità di Manzoni nei confronti della propria opera di narratore dipende, ovviamente, più dal suo credo religioso che dal suo credo letterario. L' ambiguità manzoniana non è l' effetto retorico di una poetica, è il prodotto dell'incertezza. Ma tutto si tiene. Eletto deputato al parlamento piemontese, Manzoni ricuserà dichiarandosi inetto e irresoluto per natura: "In molti casi, e singolarmente ne' più importanti, il costrutto del mio parlare sarebbe questo: nego tutto, e non propongo nulla". Si potrà dire che l' ambiguità di Manzoni non è ambiguità, è reticenza, è "timor di Dio", è perplessità, è ipocrisia. Ma, pur ammettendolo, chi ha detto che l'ipocrisia non possa produrre eccellente letteratura? Un grande scrittore si fa forza anche dei propri difetti e limiti.
Ho sempre tollerato con fastidio il noioso personaggio che è Lucia. Credo che non ci sia nessun altro romanzo di qualità la cui protagonista femminile sia tanto ottusa e insulsa, ripetitiva dal principio alla fine. Questa contadinotta né bella né brutta, timoratissima, con gli occhi sempre bassi, lacrimosa e tremolante a ogni buon bisogno, ostinata, perennemente sulla difensiva, che parlando di sé non ardisce proferire la parola "amore"; questa devota della propria verginità; questa innocente che, investita dall' archetipo della fanciulla perseguitata, non fa che implorare misericordia, è davvero un personaggio? Sospetto che no. Non fa nulla per esserlo, ma il suo opaco esistere è essenziale, incomparabile, nel gioco del romanzo. Manzoni ha dato all'irrisorio personaggio la massima funzione (passiva). Lucia è pura funzione letteraria: non agisce, non si sviluppa, anzi ricusa qualsiasi agire. Eppure lo svolgimento dell' intreccio dipende dagli effetti che Lucia, l'inetta, produce. Fuggendo e tremando di paura fa agire gli altri. E' la prima donna, la protagonista, e non lo sa; non vede mai oltre il proprio naso, pardon, oltre la propria virtù. In compenso: accende le voglie rapinose di don Rodrigo; getta il padre Cristoforo nei vortici e negli esili del mondo; per lei la monaca di Monza compie la sua ultima scelleratezza; è lei a dare il tocco decisivo alla conversione dell'Innominato; per cercarla Renzo torna a Milano nel mezzo della peste.
Insomma, è Lucia a far muovere il romanzo. Quanto più opaca e immota come personaggio (al suo confronto non diciamo la monaca, ma Agnese e la Perpetua son figure interessanti), tanto più operativa come funzione narrativa. Non troviamo anche qui un che di derisorio? Elena ha messo in moto nientemeno che l'Iliade unicamente con l'essere bella. La promessa Lucia trascina avanti il suo romanzo unicamente con l'essere vergine. Se questa non è una burla, poco ci manca. Ma è una burla nascosta, implicita, forse preterintenzionale. E ciò spiega probabilmente perché sia così raro che un lettore straniero apprezzi I Promessi Sposi e capisca il gran conto che ne facciamo. Non si troverà uno straniero che ami Manzoni come noi possiamo amare Stendhal o Tolstoj. Et pour cause. Noi soltanto proviamo gusto a pensare che Manzoni, con perfetta malizia e umiltà, avrebbe potuto benissimo dire quel che Flaubert dirà della sua Emma: "Lucia sono io". Il grand' uomo, si sa, non si prendeva poi troppo sul serio.

"la Repubblica", 26 febbraio 1985

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