15.12.13

Gli eroi dell’antica Grecia. Vite sospese tra cielo e terra (di Maurizio Bettini)

Museo Archeologico di Napoli, il cosiddetto Eracle Farnese.
copia romana di un originale di Lisippo
Quando parlavano di eroi, i Greci li inserivano in una scala discendente: prima venivano gli dèi, poi gli eroi, infine gli uomini. Li definivano anche “semidei”, proprio per sottolineare questa loro posizione né divina né umana: a volte erano figli di un dio e di una donna, altre volte erano semplicemente uomini (guerrieri, fondatori) che dopo la morte erano assurti al rango di eroi per una certa comunità. Ad essi si dedicava un culto, come agli dèi, anche se ricorrendo a rituali diversi da quelli usati per onorare la divinità. Ma qual era il ruolo esercitato dagli eroi? In genere avevano connessione con una sfera particolare della cultura: erano legati al combattimento e all’atletica, si occupavano di divinazione e di medicina, sovraintendevano ai passaggi d’età degli adolescenti; oppure avevano fondato città, rappresentavano mestieri e professioni, erano capostipiti di famiglie illustri. Questa era la funzione sociale degli eroi, per dir così.
Ma che genere di personaggi erano? Si potrebbe pensare che incarnassero un ideale di assoluta perfezione – erano eroi dei Greci, i creatori della “kalogathía”, l’unione fra bellezza e bontà: che altro avrebbero potuto essere se non splendidi esempi di virtù e bellezza? Così in effetti hanno voluto vederli generazioni di studiosi e cultori dell’Ellade, e così essi continuano ad apparire nella percezione comune. Eppure già Angelo Brelich, straordinario studioso, aveva dimostrato che le cose stavano diversamente.
Proviamo a prendere il più celebre fra gli eroi greci, Eracle. Egli fu certo un civilizzatore, che con le sue leggendarie fatiche ripulì il mondo dai mostri che ancora lo infestavano: ma fu anche noto per essere un mangione, un ubriacone, un violentatore di donne, e infine un pazzo che, nella sua follia, distrusse la propria famiglia.
E Teseo? Anche lui uccisore di mostri e fondatore di una città come Atene, anche lui però tutt’altro che irreprensibile: visto che abbandonò su un’isola deserta Arianna, la donna che tradendo patria e famiglia lo aveva fatto uscire dal labirinto.
Per non parlare di Giasone, il quale non si fece scrupolo di abbandonare Medea (anche lei sua salvatrice) semplicemente per contrarre un matrimonio migliore; o di Issione, che tentò di violentare una dea, Era, o di Tieste che violentò direttamente la propria figlia.
E questo per quanto riguarda la virtù. Se si passa al piano della bellezza, poi,si scopre che gli eroi greci non sono tutti belli come Achille, ma possono essere affetti da gravi difetti fisici. Ve ne sono di giganteschi, e fin qui niente di strano, ma anche di nani. Lo stesso Eracle a volte è rappresentato alto “come un dito”. C’erano poi eroi zoppi, come Edipo, il “piede gonfio” che per giunta aveva i capelli rossi, un tratto fisico poco apprezzato dai Greci. Altri sono invece caratterizzati dall’avere membra di animali – come Cecrope, per metà serpente – oppure dal soffrire di sessualità smodata o di impotenza, così come sono esistiti eroi balbuzienti, gobbi, senza testa, perfino con il cuore peloso. Troppo spesso lontani da quei canoni di perfezione a cui spontaneamente vorremmo riferirli, gli eroi greci costituiscono una vera e propria sfida alla nostra comprensione.
Impossibile negare, infatti, che a dispetto di un’inarrestabile tendenza alla violenza – e nonostante le proprie deformità fisiche o morali – gli eroi costituiscono una presenza fondamentale all’interno della cultura greca. Essi non sono soltanto i meravigliosi personaggi dei racconti mitologici, ma stavano alle base della pratica religiosa, e quindi della vita sociale, di moltissime comunità, che attorno al proprio eroe si raccoglievano per onorarlo e chiederne la protezione. Perché dunque rappresentarlo a quel modo? Che cosa staranno a “significare” quei connotati mitici di violenza, prevaricazione, deformità? Per trovare una risposta a questa domanda occorre evitare di concentrarsi su questo o quel tratto dell’eroe, per osservare piuttosto il complesso della sua carriera. Che è marcata sì dall’omicidio o da altre azioni riprovevoli, ma anche da prove di carattere sovrumano, che egli supera accrescendo così i propri meriti e la propria gloria - salvo restarne a volte schiacciato, suscitando all’opposto dolore e compassione. Soprattutto però è sulla conclusione della sua carriera che deve cadere il nostro sguardo: una fine tragica, attraverso la quale si realizza l’effettivo passaggio alla condizione “eroica”. Ci accorgeremo così che personaggi come Eracle o Edipo ci mettono di fronte a un’esperienza ambigua e complessa, marcata da gloria e dolore, grandezza e miseria: proprio come avviene in qualsiasi vicenda umana che abbia i caratteri dell’eccezionalità. O almeno, questo sembrano aver pensato i Greci.

“la Repubblica” 12 dicembre 2013

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