2.8.14

Ingegneria storica. Gli Usa non sono un paese normale (Noam Chomsky)

Alla fine del 2013 la Bbc ha reso pubblici i risultati di un sondaggio Win/Gallup international. La domanda posta agli intervistati era: “Quale paese è la principale minaccia per la pace nel mondo?”. Gli Stati Uniti hanno stravinto, ottenendo il triplo dei voti del secondo classificato, il Pakistan. Gli studiosi e i mezzi d’informazione statunitensi continuano a chiedersi se sia possibile contenere l’Iran e se, per garantire la sicurezza, sia necessario il sistema di sorveglianza della National security agency. Ma, a giudicare dal sondaggio, un interrogativo più pertinente sarebbe: è possibile contenere gli Stati Uniti e difendere gli altri paesi da questa minaccia?
In alcune regioni del pianeta la percezione che Washington sia il principale pericolo per la pace nel mondo è ancora più diffusa. Per esempio in Medio Oriente.
E probabilmente ben pochi sudamericani hanno dubbi sul giudizio espresso dal nazionalista cubano José Martí nel 1894: “Più si allontaneranno dagli Stati Uniti e più i latinoamericani saranno liberi e prospereranno”. Di recente il giudizio di Martí è stato ancora una volta confermato da un’indagine sulla povertà condotta dalla Commissione economica dell’Onu per l’America Latina e i Caraibi, pubblicata il mese scorso. L’indagine dimostra che una serie di riforme epocali ha nettamente ridotto la povertà in Brasile, Uruguay, Venezuela e in altri paesi in cui l’influenza degli Stati Uniti è minima, mentre altrove la miseria è rimasta abissale, soprattutto in paesi come il Guatemala e l’Honduras, a lungo sotto il dominio di Washington.
Un paese normale dovrebbe preoccuparsi di come appare al resto del mondo. Ma gli Stati Uniti non sono un paese normale. Da un secolo la loro economia è la più forte del pianeta, e dai tempi della seconda guerra mondiale nessuno ha mai messo in discussione la loro egemonia. Consapevole della necessità di esercitare un potere “più morbido”, Washington sta lanciando grandi campagne di “diplomazia pubblica” (cioè propaganda) per proiettare un’immagine migliore di sé. Ma se il mondo continua a pensare che gli Stati Uniti sono la principale minaccia per la pace, la stampa americana si guarda bene dal parlarne.
Il diritto di ignorare certe verità indesiderate è una delle prerogative del potere incondizionato, a cui si collega il potere di rileggere a proprio modo la storia. Ne sono un esempio le attuali preoccupazioni per l’escalation del conflitto tra sunniti e sciiti che sta dilaniando il Medio Oriente, e in particolare Iraq e Siria. La spiegazione prevalente dei mezzi di comunicazione statunitensi è che sia la conseguenza del ritiro delle truppe americane dalla regione, uno dei rischi dell’“isolazionismo”. In realtà, è vero il contrario: i motivi del conflitto interno all’Islam sono molti, ma non si può negare che l’invasione angloamericana dell’Iraq abbia aggravato le cose.
La morte di Nelson Mandela ha oferto un’altra opportunità per riflettere sulla cosiddetta “ingegneria
storica”: la tendenza a reinterpretare la storia in base alle necessità del potere. Quando finalmente fu liberato, Mandela dichiarò che Cuba era stata, negli anni della prigionia, “una fonte di ispirazione” e aggiunse: “Le vittorie cubane hanno (...) ispirato le masse che stavano lottando in Sudafrica e sono state decisive per la liberazione dell’Africa dalla piaga dell’apartheid”. Oggi i nomi dei cubani morti per difendere l’Angola dall’aggressione del Sudafrica razzista appoggiato da Washington sono scritti sul “Muro dei nomi” nel Freedom park di Pretoria. Ma la versione statunitense di questa vicenda è molto diversa. Fin dai primi giorni successivi al ritiro del Sudafrica dalla Namibia occupata illegalmente nel 1988, che preparò la strada alla fine dell’apartheid, quell’episodio fu definito dal Wall Street Journal “uno dei più importanti successi della politica estera dell’amministrazione Reagan”.
Il motivo per cui Mandela e i sudafricani hanno una visione completamente diversa dei fatti ce lo spiega Piero Gleijeses nel suo studio: Visions of freedom: Havana, Washington, Pretoria, and the struggle for Southern Africa, 1976-1991. Come Gleijeses dimostra, a mettere fine all’aggressione e al terrorismo sudafricano in Angola e all’occupazione della Namibia fu “la potenza militare cubana” affiancata dalla “fiera resistenza dei neri” del Sudafrica e dal coraggio dei guerriglieri namibiani. L’Esercito di liberazione della Namibia vinse facilmente le prime elezioni democratiche. E anche in
Angola si affermò il governo sostenuto da Cuba, mentre gli Stati Uniti continuavano ad appoggiare i terroristi dell’opposizione nonostante il ritiro del Sudafrica.
Fino alla fine, l’amministrazione Reagan restò praticamente da sola a sostenere il regime dell’apartheid e i suoi atti di aggressione ai paesi vicini. Ma anche se questi vergognosi episodi possono essere cancellati dalla storia interna degli Stati Uniti, qualcun altro ricorderà le parole di Mandela.
In questo, come in tanti altri casi, chi ha un potere incondizionato può provare a difendersi dalla realtà, ma fino a un certo punto.


Internazionale 1042, 10 marzo 2014

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