9.8.14

Democrazia ateniese (Dino Piovan)

Museo Archeologico di Napoli - Gruppo marmoreo del "Tirannicidi"
Copia d'età  romana (II sec. d.C.) di una scultura ateniese (V sec. a. C.)
Nella cultura italiana il tema della democrazia greca di epoca classica è praticamente irrilevante. L’ennesima riprova viene dal recentissimo volume preparatorio alla seconda edizione di «Biennale democrazia», pur pregevole per l’ampiezza e la varietà di spunti: L’interesse dei pochi, le ragioni dei molti (a cura di Pier Paolo Portinaro, «Passaggi» Einaudi, pp. 261, € 18,00) menziona solo la condanna platonica della democrazia (Gustavo Zagrebelsky in prefazione) e la critica dei socratici alla politica non solo democratica (Luciano Canfora); non c’è spazio neanche per il solito omaggio rituale alla «culla» della democrazia occidentale. D’altra parte, è lo stesso Zagrebelsky a dichiarare a chiare lettere: «la democrazia non è – nel senso che non può essere – l’autogoverno del popolo che si afferma durevolmente», non è e non può essere, insomma, quello che gli Ateniesi dicevano e volevano che fosse. Che senso avrebbe, allora, discutere di quello che non è e non può essere?
Più equanime sul piano storico, Giovanni Sartori, il più influente politologo italiano liberale, ha sempre riconosciuto l’esistenza di due tipi di democrazia: quella antica, diretta e partecipata, e quella moderna, basata sulla rappresentanza (Democrazia cosa è, 1993), per riconfermare subito dopo la netta superiorità della versione odierna, mentre quella antica non avrebbe conosciuto né la libertà dell’individuo né i diritti umani. Sartori riprende in realtà le famose tesi di Benjamin Constant (Della libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, 1819); per questo teorico liberale degli inizi del XIX secolo la libertà antica era collettiva e priva di quella libertà individuale così essenziale per la modernità. Una opinione ancora molto diffusa nel XX secolo anche grazie a Isaiah Berlin (Due concetti di libertà, 1958), che la ridefinì nei termini di libertà positiva (=antica) versus libertà negativa (=moderna), in cui la prima viene svalutata e, implicitamente ma non troppo, assimilata a una prefigurazione dei moderni stati totalitari, a vantaggio della seconda, propria del liberalismo. Anche chi, come Karl Popper, proponeva l’Atene democratica dell’età periclea in una luce positiva (La società aperta e i suoi nemici, I, 1945), finiva per presentarla come un’antesignana delle moderne democrazie liberali, con il popolo che delega i migliori a governare, non lontano dalla visione elitista di Joseph Schumpeter (di cui anche Sartori è un discepolo), in cui il popolo non è davvero sovrano ma spettatore passivo, al massimo un giudice, delle contese tra le élites che si candidano al governo.
Insomma, per dire bene della democrazia antica bisognava occultarne le caratteristiche più profonde e più lontane dalla politica contemporanea, finendo per snaturarla; e forse solo così si spiega la fortuna incontrastata della parola «democrazia» dopo la seconda guerra mondiale, quando per tanti secoli era stata bandita dalla filosofia politica (Kant, per fare un esempio, usa «repubblica» in contrapposizione alla «tirannia popolare»). La ragione di tanta perdurante ostilità sta probabilmente nell’influenza della filosofia teologica, come la chiamava Cornelius Castoriadis (L’enigma del soggetto, ed. Dedalo 1998), insomma dell’idea che esista un ordine del mondo totale e razionale, idea dominante nel pensiero politico da Platone in poi; la democrazia ateniese nasce dalla visione opposta, dal presupporre che l’ordine o non ci sia o non sia possibile conoscerlo in modo definitivo.
Contro questa svalutazione filosofica e politica si espressero, isolati nei loro ambiti, una filosofa e un antichista: da un lato Hannah Arendt (Vita activa, Che cos’è la politica?), per cui la democrazia rappresentativa è una finzione di libertà che permette ai pochi di governare i molti; di lei però si è preferito continuare a leggere le teorizzazioni sul totalitarismo o sulla banalità del male. Dall’altro Moses Finley, uno studioso americano espatriato a Cambridge ai tempi del maccartismo, in La democrazia degli antichi e dei moderni (1972) argomentava il ruolo centrale della partecipazione popolare nella democrazia ateniese in aperta polemica con l'elitismo della scienza politologica. Il libro di Finley suscitò discussioni vivaci più in Italia che altrove ma spesso centrate più sul rapporto tra Finley e il marxismo che sul problema in sé e senza generare veri frutti.
È solo alla fine degli ottanta, quasi in contemporanea con la poco profetica dichiarazione della «fine
della storia», che la lezione di Finley viene raccolta, soprattutto da studiosi nordamericani o emigrati in Nordamerica, che hanno proposto un ripensamento profondo di natura, funzionamento e scopi dell’antica democrazia, con l’ambiziosa pretesa di affermarne la rilevanza per la teoria e la pratica democratiche contemporanee uscendo dagli stretti confini disciplinari della storia antica. È il caso soprattutto di Josjah Ober, che in Mass and Elite in Democratic Athens (1989) arriva a concludere che nell’Atene classica erano le masse a esercitare un’egemonia ideologica sulle élites; Ober si serve di un’analisi originale dei luoghi comuni della retorica pubblica, cercando di fondere il concetto di linguaggio performativo tratto da Austin, la riflessione su potere e verità di Foucault e spunti gramsciani. Diverso il percorso di Kurt Raaflaub, uno svizzero emigrato negli Stati Uniti, che in The Discovery of Freedom in Ancient Greece (2004,ma l’originaria edizione tedesca è del 1985) correla i concetti con la realtà socio-politica secondo l’insegnamento di Reinhart Koselleck; ma la lista degli autori da citare sarebbe lunga. Si tratta di studi innovativi che hanno finito per stimolare anche i non antichisti, come John Dunn o Bernard Manin; in Italia purtroppo sono ancora poco noti anche perché non tradotti, con la parziale eccezione del danese M. Hansen (La democrazia ateniese del IV secolo a. C., LED 2003), che privilegia l’indagine sulle istituzioni allo studio della cultura e dell’ideologia. Si è quindi grati al piccolo editore milanese Ariele per la traduzione di Le origini della democrazia nell’antica Grecia (ed. or. 2007, trad. di L. Spinelli, pp. 268, € 25,00), che comprende saggi di cinque studiosi (K. Raaflaub, J. Ober, R. Wallace, P. Cartledge e C. Farrar): quelli dei primi tre interagiscono criticamente sul problema della data di nascita della democrazia mentre gli ultimi due li commentano dal punto di vista della storia antica e della scienza politica.
Senza entrare nei vari contributi talvolta specifici, alcuni presupposti sembrano condivisi da tutti gli autori, come quello che la democrazia ad Atene era realtà effettuale e non immaginazione, la mancanza di rappresentanza e di una classe di «esperti» delegati a governare, l’inesistenza di uno stato in Grecia antica e quindi anche di un’istituzione distinta dalla comunità dei cittadini a cui contrapporsi rivendicando diritti umani inalienabili, senza che questo implichi l’inesistenza di diritti civili. Nessuno propone l’idea storicamente infondata di una filiazione della democrazia moderna da quella antica, né una semplicistica riproposizione di modi ateniesi; se interessanti sono le osservazioni di Cinthia Farrar sugli esperimenti nella Columbia canadese e nel Connecticut, il valore maggiore del libro sta nella consapevolezza di come l’esperienza democratica ateniese racchiuda un potenziale euristico non trascurabile per la riflessione moderna. Soprattutto, ci aiuta a comprendere come la forma attuale della democrazia non sia l’unica pensabile né la sola storicamente possibile.


"Alias - il manifesto" 4 GIUGNO 2011

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