21.8.14

Carlo Levi, contrasti romani (Clotilde Bertoni)

Carlo Levi, Tetti di Roma
Spazio «mutevole e immobile, fermo e fugace, labile e eterno», «centro fatale di chiesa e corruzione»: la Roma stratificata e disorientante, splendida e torva, passaggio cruciale per Goethe come per Stendhal, per Hawthorne come per James, ricompare filtrata non da un’esperienza eccezionale ma da una quotidiana intimità, in scritti di Carlo Levi compresi tra il 1951 e il 1963 (per lo più usciti su giornali e riviste, qualcuno inedito): ora raccolti, secondo un progetto dell’autore, con il titolo Roma fuggitiva, in un’edizione basata sulle carte originali (Donzelli), curata da Gigliola De Donato, illustrata da fotografie di Allan Hailstone, e accompagnata da una presentazione e una postfazione di Giulio Ferroni.
Come Ferroni rileva, il titolo, ispirato a un sonetto di Quevedo (che Levi attribuisce erroneamente a Góngora), sottende più sensi. È fuggitiva la città, o meglio sfuggente a una definizione univoca: epicentro della mutazione in agguato, stretta tra lunghi immobilismi e metamorfosi incoerenti; in bilico tra la restaurazione soffocante di cui Levi avverte la minaccia già nell’Orologio, e nuovi fremiti di protesta; disarticolata tra la stasi del centro storico, i disagi delle borgate in espansione e i quartieri moderni nati da un rapace affarismo, «sfavillanti e avidi come dentiere». E fuggitiva è altresì la scrittura, non solo perché vincolata alla misura effimera e agile dell’articolo, ma perché anch’essa refrattaria alla classificazione, imbastita (in linea con la tradizione elzeviristica che fa capo ai Pesci rossi di Cecchi) su una trama irregolare di impressioni, divagazioni e note autobiografiche, e fluttuante lungo una gamma di toni eterogenei, che peraltro tocca gradi di profondità ben diversi. Molti pezzi scivolano scorrevoli tra gli aneddoti diletto continuo del Levi uomo di mondo (come ricordano i suoi amici Sartre e Simone de Beauvoir) e i colpi d’occhio sostenuti dalla sua esperienza di pittore, sfiorando quindi suggestioni e paradossi della capitale con pennellate classicamente accattivanti e provvisorie: le osservazioni di costume sul «turismo iperbolico» delle comitive, o sulla villeggiatura estiva non più solo rito snob di goldoniana memoria, ma anche insofferente fuga di massa; gli avvicendamenti di tipi umani (sempre mediati dalla prospettiva un po’ paternalista già tipica di Cristo s’è fermato a Eboli), quali l’usciere decorato di guerra senza averne compreso la ragione, la governante ciociara «torreggiante e imperturbabile», il contadino lucano rapinato da finti poliziotti; gli scorci di quotidianità, che vanno dall’eroicomico combattimento contro cinque gatti di un topo degno del Rubabocconi leopardiano, alla «scena hemingwaiana» di una turista che esige un Negroni senza gin e una Roma senza italiani, all’aggressione improvvisa e miracolosa di una primavera che «diventa insieme foresta e architettura con l’infiorata di Piazza di Spagna».
Ma spesso la scrittura si fa più inquieta e pungente, intercetta più da vicino le ambiguità del tempo, serra la realtà esaminata in una rete palese o sotterranea di nessi e contrasti. Un articolo divaga con sbrigliata libertà associazionistica sulle Olimpiadi del 1960 (paragonando l’atleta Wilma Rudolph alla Nataša tolstojana, immagine antonomastica di gioia di vivere, e accostando più a sorpresa un altro velocista, Livio Berruti, a un diversissimo esempio delle sterminate potenzialità della giovinezza, Piero Gobetti); ma quello successivo si ferma invece aspramente sul loro contesto, descrivendo la speculazione edilizia che ne ha approfittato per deformare i piani regolatori, la costruzione dell’Hilton scempio definitivo di Monte Mario, la dilatazione della «tela di privilegio e interessi» tessuta dai «Luigini», i benestanti e corrotti filistei presi di mira già nell’Orologio. E la Piazza Navona adorata tappa di ogni effettiva o cartacea passeggiata romana, figura da un lato come fulcro della permanenza, familiare teatro di rassicuranti consuetudini (il «frastuono pagano e agreste» della festa della Befana, dove il mutamento inizia a insinuarsi solo attraverso i giocattoli giapponesi), dall’altro come scenario di strappi laceranti, teatro a sorpresa dell’efferato «delitto di classe» commesso dal ristoratore Fernando Ciampini, che l’11 marzo 1962 uccide a colpi di pistola il ladruncolo Rossano Moscucci, sorpreso a rubare un’autoradio: delitto di cui Levi evoca ellitticamente protagonisti e dinamica (sarebbe stato opportuno qualche ragguaglio in merito nell’altrove accurato apparato di note), per soffermarsi invece sulle sue valenze, e scorgervi, sulla scia di un giudizio di Pasolini, una spia agghiacciante del disprezzo per il sottoproletariato e delle velleità di giustizia privata che serpeggiano nel conformismo borghese.
Lo scavo nelle dissonanze della contemporaneità si intensifica nei passi sulla popolazione della città e della provincia, vista da un lato come «populusque» compresso dall’intima congiunzione con un potere passato per incarnazioni varie (impero, chiesa, fascismo, governo democristiano), ma sempre incombente e repressivo, dall’altro come agglomerato dai volti differenti: collettività avvezza al disincanto, sia rassegnazione sempiterna o noia moraviana; «massa inerte» per cui il voto è una nuova articolazione del rito dell’obbedienza, che si accalca a sorbire l’eloquenza manipolatrice di Andreotti (assimilato ai personaggi stendhaliani imbevuti di «fredda passione del calcolo politico» e «disprezzo fondamentale dell’uomo»); ma anche «cosa viva, piena di forza nascosta», serbatoio di energie giovani in grado (come dimostrano le più volte evocate manifestazioni di Porta S. Paolo, parte della protesta contro il governo Tambroni che insanguina l’Italia del 1960), di sfondare le «muraglie tradizionali» dell’indifferenza.
Levi spinge l’esplorazione dei fenomeni dell’epoca anche alla sfera a lui più prossima, con l’articolo Calcio e letterati, divertito e divertente racconto di una telefonata a Bassani, in cui il proprio desiderio di dare degna voce al giudizio sull’appena comparso Giardino dei Finzi-Contini urta contro la smania dell’amico di tornare alla visione televisiva della partita Real Madrid-Juventus; peraltro, rifiuta di ricavare dall’episodio «lunghe considerazioni sugli aspetti della civiltà di massa, sui caratteri dell’alienazione», per sottolineare invece i «risultati quasi incredibili di umiltà» che questa civiltà può generare: non solo canzonando così un gergo sociologico già imperversante e vacuo quanto le mode che studia, ma anche dissacrando l’autorevolezza ancora ambita dagli scrittori, smontando le loro pretese di superiorità sul proprio tempo. 
È appunto un implicito piglio autodissacratorio, in fondo, il principio unificante di questi articoli: deponendo i panni dello scrittore per quelli del commentatore occasionale, abbandonando l’abituale tensione alle rappresentazioni organiche e ai pronunciamenti forti, mescolando volubilmente emozioni poetiche e engagement indignato, fervore delle esortazioni e aporie del dubbio, Levi insegue le contraddizioni di Roma e del periodo con un atteggiamento contraddittorio anch’esso, riflette i cambiamenti in una scrittura a sua volta cangiante, pone sulle transizioni in corso domande leggere o corrosive, comunque restie a sciogliersi in conclusioni; scontato poi aggiungere che le risposte loro fornite dalla storia ne rendono oggi per noi il suono forse più malinconico, sicuramente più interessante.


Alias-il manifesto, 2 luglio 2011

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