Una raffigurazione della "Mater Matuta" |
ROMA
Nella piccola chiesa di
Sant'Omobono dirimpetto all'Anagrafe una valente archeologa,
Giuseppina Pisani Sartorio, ha allestito una mostra e ne ha curato il
catalogo, con il patrocinio del Comune e il finanziamento
dell'Italgas. Non vi sono esposte né statue, né pitture, né gemme:
solo testimonianze delle fasi più remote di Roma. E si spera che da
questo rinnovato interesse per i primordia Urbis risultino
scavi ulteriori, storicamente più importanti di quello di via dei
Fori Imperiali che, per ora, sembra riportare alla luce soltanto il
selciato del 1930 e tetre cantine.
Non è certo la prima volta che si
parla dell'area sacra di Sant'Omobono; studiosi illustri come
Gjerstad, Coarelli, Sommella, Torelli e altri ne hanno scritto
diffusamente. La scoperta, nella zona, di tracce dall'VIII secolo
a.C. in giù risale al 1937; ma, ad onta degli sforzi del professor
Colini per tutelare l'area, i palazzi dell'Anagrafe e l'asfalto di
via del Mare limitano l'attività degli archeologi ai dintorni
immediati della chiesa. Altre difficoltà dipendono dal fatto che già
a tre metri di profondità si trova una falda d'acqua che, prima
della costruzione dei muraglioni, veniva assorbita dalle sponde del
Tevere.
I reperti più vistosi (attualmente non
esposti), il gruppo fittile di Atena ed Eracle, il bassorilievo e i
due grandi felini (età di Tarquinio il Superbo, 534-509 a.C.), che
si trovavano nel tempio primitivo, li vedemmo nel convegno del 1977
Lazio arcaico e mondo greco; se n'è parlato in altri incontri
e più se ne parlerà nell'imminente mostra sulla Grande Roma dei
Tarquini. Al presente, i disegni di Giovanni Ioppolo presentano le
varie ipotesi di collocazione nel tempio primitivo, che fu distrutto,
forse al momento della cacciata dei re etruschi nel 509. Nelle
vetrine si vedono buccheri etruschi, ceramiche d'importazione attica,
corinzia e jonica, altre etrusco-corinzie, ciondoli, fibule, oggetti
d'uso - balsamari, ciotole, piattini, spesso in miniatura, perché
il più delle volte si tratta di ex voto - , ossa d'animali
sacrificati, fusi e contrappesi da telaio, ambre (che provenivano dal
Baltico), alabastri egiziani: prodotti che testimoniano la presenza
nella zona d'un artigianato di lusso, greco o greco-orientale.
Il viver quotidiano di Roma
arcaica (tale è il titolo della mostra) appare in realtà solo di
riflesso; e neppure si coglie da questi esigui documenti (qualcuno ne
ha parlato come del tema fondamentale della mostra) la prova storica
dell' esistenza dei sette re di Roma. Da quanto si vede, ruderi
attorno e oggetti in vetrina, risulta soprattutto che la pianura tra
il Campidoglio e il Tevere ospitò già in epoche lontanissime un
mercato e un centro religioso, servì come crogiuolo di razze e,
oltre che scambio di merci, offrì un punto d'incontro a diversi
costumi, tecniche, culti e idee.
Lì, per una vocazione geografica, si
coagulò la città-cerniera tra Nord e Sud, tra oriente e occidente:
l'ansa del fiume e l'isola Tiberina facilitavano gli approdi. Qui gli
etruschi incontravano i greci dell'Italia Meridionale, la Magna
Grecia, quelli dell'Egeo e altri navigatori e mercanti, qui manufatti
di lusso venivano scambiati con buccheri e bronzi etruschi, ma anche
con agnelli e latticini dei pastori, di cui è accertata la
frequentazione sul Palatino, il Campidoglio, l'Esquilino, sin dai
tempi della cultura appenninica (XVI-XII secolo a.C.); la parola
pecunia, si noti, viene da pecus; e c' è chi ha
affacciato l' ipotesi che i septem colli fossero saepti,
vale a dire non sette ma chiusi da recinti, come si usa tuttora per
le greggi.
Da quanto si vede emergono due elementi
fondamentali: quello religioso femminile e l'influsso greco, almeno
pari a quello etrusco. I due templi gemelli, ricostruiti agli inizi
del V secolo (età repubblicana) su un unico basamento quadrato, sono
dedicati uno alla divinità già del tempio primitivo, Mater Matuta,
l'altro alla Fortuna. Mater Matuta, dea della fecondità, ha nel nome
la stessa radice di matutinus, di maturo, come ciò che nasce; in suo
onore l' 11 giugno si celebrava la festa dei Matralia: le matrone
univirae (vale a dire sposate una volta sola) introducevano nel
tempio una schiava, poi la scacciavano a suon di nerbate, simbolo
dell' espulsione di tutto ciò che è vile, inferiore; per implorare
su di loro la protezione della dea portavano in braccio non i propri
bambini, ma quelli delle rispettive sorelle.
Questo atto rituale delle zie, secondo
Georges Dumézil, è d'origine indo-europea e sta a significare che
la dea dell'Aurora, sorella della Notte, promuove la nascita del
figlio di quest'ultima, il sole. La Mater Matuta è assimilata anche
a una figura del mito greco, Leucotea, la dea bianca che allevò
Dioniso, figlio di sua sorella Semele e, per salvarsi dalla furia
omicida del marito, approdò sulle rive del Tevere. Quanto alla
divinità del secondo tempio, Fortuna, era la dea tutelare di Servio
Tullio, che, figlio d'una schiava, era stato messo sul trono dalla
vedova del predecessore, Tanaquil, una etrusca veggente rappresentata
con gli strumenti della tessitura: a lei forse sono dedicati i fusi
esposti.
Per il suggestivo fenomeno della
continuità sotterranea dei culti (a Paestum la Madonna del Melograno
ha preso il posto della Hera Argiva, alla quale era sacro quel
frutto), i templi arcaici furono più volte rifatti e restaurati,
fino all' età di Adriano. Sul luogo forse si instaurò una chiesa
paleocristiana, poi certamente medievale e infine rinascimentale,
dedicata a Sant'Omobono; e il nome del santo, sarà una coincidenza,
è la traduzione esatta di quello del mitico abitatore della zona
che, poco lontano di lì, accolse Enea quando questi sbarcò sulle
rive del Tevere. Si chiamava Evandro Uomo Buono, portatore
dall'Arcadia di costumi civili e dell'alfabeto tra i rozzi latini; il
suo nome era in contrasto con quello del bandito che viveva nelle
grotte dell'Aventino, Caco (dal greco Kakòs = il cattivo).
Ravvisiamo dunque nella zona i primi passi d'un cammino di civiltà
che lentamente, ci auguriamo, procede.
“la Repubblica”,10 giugno 1989
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