Lo scrittore viennese Arthur Schnitzler (1862-1931) |
Ogni guerra fa deflagrare anzitutto
il senso che convenzionalmente si attribuisce alla parola civiltà.
Perché mostra come tra barbarie e civiltà non ci sia alcun salto,
alcuna opposizione. Eppure la distruzione degli uomini e della natura
che la guerra comporta come sua stessa ragione è, ogni volta,
annebbiata, resa irreale e distante.
Di fronte al dispiegarsi dell'orrore,
di fronte alle immagini dei corpi dilaniati e feriti, delle città
distrutte, sopravvengono le teorie politiche e le filosofie a
distrarci, intrattenendoci nelle distinzioni tra guerra giusta
eingiusta, invitandoci a contemplare, con un sospiro di resa,
l'inevitabilità della guerra, o sospingendoci verso quella
spoliazione della volontà del singolo, e dell'ordine politico, che è
la necessità. Questa distrazione dall'orrore, questa anestesia del
tragico, oggi hanno il nome di realismo politico. Con sprezzante
sufficienza il realismo, professato dai «filosofi della guerra»,
mentre puntella di ragioni il diritto dei forti, risospinge la pace
nel lessico impolitico o religioso o utopico.
Oggi questo realismo ha la stessa
funzione che per altre guerre hanno avuto l'estetica dell'assalto e
dell'aggressione e l'idea di una rigenerazione attraverso il
sacrificio. In un caso e nell'altro si offende la verità della
morte, della morte del singolo, il corpo stesso della sofferenza.
L'astrazione ha come prima vittima il senso del dolore. «Non
sapevate - scriveva Arthur Schnitzler nel marzo del 1916 rivolto ai
'nemici dell'idea di pace - che nella parola guerra sono contenute,
come in una coppa trasparente e fragile, tutte quelle altre parole:
assassinio, mutilazione, rapina, saccheggio, flagello, accecamento,
pidocchi, avvelenamento, bruciare vivi, soffocare, morire di sete e
cento altre ancora, che ora improvvisamente, poiché la coppa si è
finalmente rotta, volano nell'aria come insetti nocivi e oscurano
l'atmosfera?».
L'affinamento delle tecniche
distruttive ha oggi esteso quell'elenco fino all'inimmaginabile, fino
alla possibile distruzione della lingua stessa che nomina l'orrore.
La verità della morte, che la guerra espone, in altre epoche e
culture era sublimata nella fascinazione dell'eroe, del suo valore.
Ogni epica - classica o orientale - ha cantato, nel corpo morente
dell'eroe, il suo patto con l'immortalità, il confine col regno
degli dei. Le attuali tecniche offensive «intelligenti»
(intelligenza che forse annuncia, nella sua artificiale mostruosità,
la caduta della compassione dall'intelligenza umana) esorcizzano la
morte con la lingua amministrativa del Pentagono: effetti collaterali
sono dette le
morti di migliaia di uomini. E, nella
dispiegata visibilità della forza distruttiva, è offuscato,
allontanato, il numero delle vittime e dei feriti. Muta solo, in ogni
epoca, il vocabolario della barbarie, non la barbarie.
Un'immensa antropologia negativa si
apre dinanzi agli occhi di chi osserva le guerre nella storia degli
uomini. Il costituirsi dell'altro come straniero, dello straniero
come nemico, come proprio limite e fantasma e minaccia, il passaggio
dall'amor proprio (l'amor sui dei classici, radice del
conflitto coi propri simili) all'amor di patria, e da questo alla
«causa comune» che va oltre l'idea di patria, e poi via via, fino
alla ragione invisibile che nel moderno motiva le guerre con
la difesa d'un ordine internazionale di cui l'individuo, nei suoi
sensi, non avverte nessun riflesso: è il cammino della ragione
politica verso l'astrazione dal singolo, dalla sua corporeità, e
persino dai suoi diritti. Astrazione che è fondamento della
violenza. Si tratta di un cammino che la meditazione di Leopardi
sulla guerra percorre in molte pagine dello Zibaldone.
Meditazione che ha al suo centro una constatazione: «La forza è
l'arbitra del mondo oggidì, come anticamente, non la giustizia».
Amaro è il confronto tra l'antico e il moderno in rapporto alla
guerra: «...allora chi moveva la guerra, era spesso ingiusto colla
nazione a cui la moveva, adesso chi la move è ingiusto, appresso a
poco, tanto con quella a cui la move, quanto con quella per cui mezzo
e forza la move». L'abisso del tragico che e la guerra è anche
abisso della differenza tra l'uomo e gli altri animali: «Che
proporzione, anzi che simiglianza può aver l'uccisione d'uno o di
quattro o dieci animali fatta da' loro simili qua e là sparsamente,
in lungo intervallo, e per forza di una passione momentanea e
soverchiante, con quella di migliaia di individui umani fatta in
mezz'ora, in un luogo stesso, da altri individui lor simili, niente
passionati, che combattono per una querela o altrui, o non propria
d'alcun di loro, ma comune ...e che neppur conoscono affatto quelli
che uccidono, e che di là ad un giorno, o ad un'ora, tornano
all'uccisione della stessa gente, e seguono talvolta finché non
l'hanno tutta estirpata?». La civiltà con la guerra mette in atto
un'organizzata opera di regressione verso quella che Freud chiamava
«ostilità primaria» o «crudele aggressività», abolisce
l'interdizione all'uccidere, svincola la pulsione di morte dal suo
nesso con la vita, anzi ne esalta il potere distruttivo annullando di
colpo la distanza che ci separa dall'uomo primordiale: «Noi
accettiamo la morte per gli estranei e i nemici e la decretiamo nei
loro confronti con la stessa prontezza e mancanza di scrupoli
dell'uomo primitivo», scriveva Freud.
La meditazione di Freud sulla guerra
muove dalla verità della morte che ogni guerra espone e a partire da
questa tragica esposizione interroga il senso di quella tessitura di
rapporti e statuti e regole che chiamiamo civiltà.
Oggi, più scopertamente di ieri, si
assiste alla ridda di logiche dimostrative, di consensi manipolati,
di fascinazioni tecnologiche che distanziano la verità della morte e
soffocano l'insorgere della compassione, il senso stesso del dolore.
A quest'opera collabora un vocabolario che è all'altezza dell'epoca.
Così il diritto internazionale maschera l'impotenza delle Nazioni
Unite a garantire la pace; la democrazia, mentre la si invoca,
travolge le relazioni con l'altro, con la sua storia, con i suoi
saperi, con i suoi stessi diritti, e esibisce lo stretto legame con
quella violenza da cui vorrebbe tutelare il singolo cittadino: la
liberazione di un paese è l'ipocrita paravento per la distruzione di
un altro paese; persino la preghiera, l'invito alla preghiera,
quand'è di parte, può diventare il muro che trattiene dalla pietà.
Quanto alla vittoria, sin dal primo
giorno corteggiata e gridata, non solo è l'oltraggio più spietato
nei confronti delle vittime, ma è anche il manto che nasconde
l'intrico di ingiustizie che ogni guerra somma alle ingiustizie
preesistenti. Dinanzi a questo vocabolario vale davvero, ancora,
quello che annotava Schnitzler nel gennaio del 1915: «II vocabolario
della guerra è fatto dai diplomatici, dai militari, dai potenti.
Dovrebbe essere corretto dai reduci, dalle vedove, dagli orfani, dai
medici e dai poeti». Come può accadere che il punto di vista della
sofferenza diventi per i «filosofi della guerra» una variabile
irrilevante?
Da Le lezioni del golfo.1 –
Supplemento a “il manifesto”
- Senza data, ma 1990
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