In occasione della prima
traduzione integrale dei Mémoires d'outre-tombe di
Chateaubriand (Einaudi, 1995), “la Repubblica” pubblicò un ampio
articolo del prefatore, Cesare Garboli, che riassumeva alcuni punti
di vista su uno scrittore che il quotidiano proclamava “il grande
assente nella cultura italiana del Novecento”. Sperando di fare
cosa utile stesso a me e a qualcun altro lo ripropongo qui. (S.L.L.)
René de Chateaubriand |
Ricordo bene la mia prima
lettura dei Memoires d'outre-tombe. Avevo passato da poco i
trent'anni. Una lettura gelosa, segreta, simile a quelle che si fanno
nell'adolescenza, quando ci si abbandona ai libri e si chiede loro
con una specie di oblio di noi stessi tutto ciò che non vediamo e
non troviamo nel mondo. Di tutte le letture che ho fatto nella mia
vita, poche sono state una sorpresa più entusiasmante dei racconti
d'infanzia di Chateaubriand nel castello di Combourg. Ancora oggi mi
sembra così strano che quel castello gotico mi fosse così
famigliare. Lo avevo abitato in qualche vita precedente? Non c'era
quasi bisogno di leggere, tutto mi aspettava, i passi paterni avanti
e indietro nelle tenebre, la campana della cena, i capelli alla
cinese e il collier de fer di Lucile, il divano rosso davanti
al camino, la finestra della torre, i corvi, il torrente di parole
che esplode tra madre e figli non appena il padre si ritira.
L'intimazione, la divinazione di Lucile, rivolta non al futuro del
fratello ma a un passato immaginario: "Tu devrais peindre
tout cela".
Combourg era una strana
promessa. Non reincarnava i miei ricordi, incarnava i miei sogni, ma
li incarnava e li prolungava in retrospettiva, me li restituiva nel
momento in cui non esistevano più. Li spingeva nell' infinito. E'
stato un giornalista oggi troppo dimenticato, Alfred Nettement (il
solo che abbia difeso Balzac in un famoso processo), a dire intorno
alla prima parte dei Memoires d'outre-tombe la parola giusta:
"il règne dans cette vaste composition je ne sais quoi d'
infini". Che cosa si può predicare dell' infinito? Niente, ma
se si tratta di un effetto letterario, si può tentare di studiarne
la formazione.
Spostiamoci in un punto
dei Mémoires che Nettement non poteva conoscere. Quando
Nettement pronunciò il suo mot juste, era il 1834. A quel
tempo le parti intermedie dei Mémoires d'outre-tombe erano
ancora frammentarie, il manoscritto comprendeva solo la prima e la
quarta parte, le estremità, le "ali" dell'edificio, la
giovinezza e le solitarie ambascerie a Praga a nome della duchessa di
Berry. Spostiamoci a Gand, alla vigilia di Waterloo. Chateaubriand è
al seguito di Luigi XVIII, è ministro dell'Interno a interim. E'
solo, Mme de Chateaubriand è andata en touriste a visitare Ostenda.
Una città che risveglia dei ricordi: "J'avais descendu exilé
et mourant ces memes canaux". Riemergono gli anni dell'assedio
di Thionville; la prima emigrazione, l'Inghilterra, gli amori durante
l'esilio. La Storia si ripete. Si forma subito un pensiero di vanità
e di morte, ma accompagnato da una riflessione meno tòpica, per così
dire, meno abituale.
"Nessuno come me si
è creato una società reale evocando delle ombre; al punto che la
vita dei miei ricordi assorbe il sentimento della mia vita reale.
Perfino le persone di cui non mi sono mai occupato, una volta che
muoiono, invadono la mia memoria: si direbbe che nessuno può
diventarmi fraterno se non è passato attraverso la tomba, il che mi
porta a credere di essere un morto. Dove gli altri trovano una
separazione eterna, io trovo un eterno ricongiungimento; se uno dei
miei amici lascia questa terra, è come se entrasse in casa mia; non
mi abbandona più".
Si possono riconoscere in
questo passo molti dei fiori cimiteriali di cui Chateaubriand fa
sempre così largo consumo. Ma l'urna che li contiene non è la
solita. Non è la solita messinscena dell'ubi sunt ("Ce
chateau, ces jardins, que sont-ils devenus?"). Il tema primario
non è qui la morte, che ne è solo lo sviluppo, ma il disturbo
reciproco, l'invadenza reciproca, a corrente alternata, di vita reale
e vita immaginaria. Questa reciprocità non è mistica, ma
drammatica. Il pensiero della morte e della vanità delle cose,
servizievole e solerte lacché, interviene solo a placare il
conflitto e a fornirgli la soluzione più a portata di mano.
Immaginare e agire,
azione e contemplazione sono due forze in concorrenza che presidiano
a turno la vita di Chateaubriand e la occupano nella sua totalità,
per intero; se c'è l' una non c'è l'altra, e ciascuna, ritirandosi,
lascia alla contemplazione dell'altra solo le proprie rovine. Sono
due forze sterili, ma entrambe di grandissima intensità, e di libido
e di estensione infinita. L' urto dei sogni, delle chimere, delle
larve dell' immaginazione contro il muro o la vanità delle cose
reali copre tutta l' area del romanticismo, ma Chateaubriand, come
tutti i pionieri, ne è stato il protomartire, il testimone primitivo
e cieco; arriva sul continente sconosciuto prima di tutti, mette il
piede su tutti i punti giusti, ma si orienta al buio, non ha le
carte, non conosce le strade, non sa amministrare le sue scoperte e
non sa dove costruirsi una casa. La forza del suo immaginario è
infinita; molto più grande di tutte le Atala, di tutti i René
e di tutti i Martyrs, ma è anche un' energia che si perde.
Per dare credito all'immaginario ci vuole l'autore di Salammbo.
A volte sembra che Chateaubriand si accorga che la sua tortura non
nasce dalla vanità delle cose ma dal contrario, dalla vanità dei
fantasmi.
Era questa l' emozione
che mi dava la lettura dei Mémoires d' outre-tombe. Me ne
vergognavo quasi fosse un piacere perverso. Che cosa amavo in quello
scrittore così reazionario, vanitoso, codino, menagramo, un
bugiardo, un pavone? Che cosa c'era in quel castello di Combourg? Ci
voleva ben poco a capire che cosa c'era: la fonte di tutto il romanzo
moderno. Leggevo Proust e pensavo ai Mémoires d'outre-tombe;
leggevo i romanzieri di avventure esotiche e marinare e sentivo l'
odore di mare di Saint-Malo e del Voyage en Amerique. Sentivo
la presenza del romanzo; era dappertutto, in ogni rigo dei Mémoires,
ma invisibile come la voce dell' oceano, senza corpo e senza forma
come il nascere e il dissolversi delle nuvole. Poco a poco, cominciai
a dar credito a Chateaubriand, e a guardarlo con occhio sempre più
incuriosito. Cominciai a remare non senza fatica nell'arcipelago di
tutte le sue opere non letterarie, aiutandomi con la vecchia edizione
Pourrat (non quella in 36 volumi, purtroppo, che Chateaubriand si
teneva in casa a rue du Bac, ma l' altra, in 22, di quattro anni
prima). Seguivo le piste che mi venivano indicate dai Mémoires,
rileggevo i libri che avevo letto e perlustravo la foresta pressoché
impraticabile degli studi storici e degli scritti politici. E mentre
sognavo di tradurre i Mémoires d'outre-tombe e di farli
conoscere mi dicevo che Chateaubriand aveva inaugurato il tipo dello
scrittore dall' io sistematicamente autoreferenziale; non sapeva
scrivere un solo rigo senza fare delle proprie emozioni la sua
bussola. Non appena ha la penna in mano, qualunque sia l'interesse
letterario che lo tiene impegnato - saggistico, narrativo,
romanzesco, polemico, politico, storico - quest'uomo ha bisogno di
dare a se stesso, per prima cosa, le proprie coordinate: dove si
trova, in quale punto del tempo e dello spazio. "Qui
suis-je?": è un tempo e un luogo, come "Longtemps,
je me suis couché de bonne heure" - il meccanismo scatta da
sé. Esso verrà enfatizzato dallo Chateaubriand più tardo, e
servirà da principio architettonico dei Mémoires d' outre-tombe.
Ma è un meccanismo che ha una lunga preistoria.
Chateaubriand chiama in
causa se stesso per orientarsi. Parte sempre da una situazione
attuale, dalla propria emozione nel momento stesso in cui la
riferisce. Un po' più complicato di una comune vocazione diaristica,
questo meccanismo presuppone una sindrome da étranger, da
spettatore del mondo i cui sintomi girano come una costellazione
intorno al dandysmo esistenziale e negativo di Rene. Il bisogno di
oggettivarsi produce uno sdoppiamento, o, viceversa, l'essere sempre
altrove impone a una coscienza separata di riappropriarsi del mondo
nella maniera più spiccia, semplicemente prendendo posizione. In
ogni caso, colui che scrive tenderà a proiettarsi in una terra di
nessuno, lungo una linea di confine che lo unisca e lo separi dal
mondo, e a venire al proscenio. Tenderà a diventare, come ogni
scrittore di diarii, o di memorie, in forma più o meno pronunciata,
il personaggio della propria rappresentazione. Se si tratta di
fiction, il meccanismo soffre e rimane sotto pelle, ma non
tanto che la voce e il timbro del narratore non ce ne diano notizia.
Questo fenomeno si fa
ancora più interessante se si associa la sindrome dell'étranger
a un istinto professionale che fino ai primi dell'Ottocento non aveva
mai raggiunto i livelli ai quali si è espresso con Chateaubriand.
Tra le infinite cose inventate da Chateaubriand c'è anche tutto o
quasi il giornalismo moderno. Nella sua attività di scrittore, che
tanto impressionava i contemporanei, Chateaubriand ha praticato da
maestro tutte le forme di giornalismo che abbiamo oggi sotto gli
occhi. E' stato, come usa dire, un editorialista principe, un
fondista capace di far cadere i governi, un polemista civile, un
corsivista, un reporter, uno scrittore di viaggi, ecc. ecc. ma è
stato, soprattutto, un grandissimo inviato; troppo avant la
lettre, troppo in anticipo perché la straordinaria
professionalità del suo talento fosse decifrabile dai contemporanei,
quanto più ne restavano oscuramente sedotti. Tanta novità è
rimasta nascosta e irriconoscibile anche in seguito, perché confusa
con gli stereotipi dello scrittore di memorie e di viaggio. Ma il
lettore che ha sotto gli occhi questa prima traduzione integrale dei
Mémoires d'outre-tombe non farà molta fatica ad accorgersi
della tecnica di montaggio, di assemblaggio con la quale
Chateaubriand riesce a mascherare, articolandoli su piani e stili
diversi, i suoi "servizi dall'interno e dall'estero": dalla
Francia, dalla Germania, dalla guerra, dai corridoi della politica e
della diplomazia, dalla Boemia, da Londra, da Roma, da Valchiusa,
dall'Oriente, dalla Grecia.
Non si tratta di servizi
improvvisati e occasionali, ma di un metodo. La ritirata di Russia è
un capolavoro di reportage, scritto da un inviato speciale che non ha
partecipato alla tragedia ma l'ha vissuta divinandola sui documenti,
come e meglio che se fosse stato là; l'assassinio del duca di
Enghien ci viene raccontato come un giallo-inchiesta costruito al
modo in cui oggi si fabbricano innumerevoli libri sul "caso"
e l' "affaire"; il servizio dagli Stati Uniti che conclude
il viaggio di esplorazione tra i pellirosse, anticipa in due o tre
paginette sintetiche tutto ciò che sui nostri giornali si leggeva
ieri e ancora si legge oggi sui problemi di crescita e di democrazia
del popolo americano. La citazione dotta, l'aneddoto, la nota di
colore, il richiamo erudito, la curiosità linguistica cuociono
insieme al cibo più sostanzioso sprigionando intorno un aroma di
raro, un odore di antichità (molti di questi odori Chateaubriand li
attingeva al grande magazzino della Biographie Michaud,
avvincente e dottissimo feuilleton di tutta l'Histoire de
France, fonte esaltante di ogni "meraviglioso storico").
Quando si frequenta un
grande scrittore, niente può essere invitante come lasciarsi
contagiare dalla sua "aura". Un bisogno irresistibile
d'identificazione ci porta a ripercorrere tutti i passi di chi ha
saputo esprimersi, e a frugare nei più piccoli particolari del suo
entroterra biografico e psicologico, alla ricerca di non si sa quale
segreto, o magari di una pietra filosofale. Il nostro io è così
labile, che si lascia espropriare volentieri da ciò che ama.
Soltanto un moralista potrebbe stupirsi di questo fenomeno. Il
romanticismo ha insegnato alla letteratura come si surroga nei
romanzi la vita; e viceversa, ha dato alle nostre passioni di che
nutrirsi di qualche inferno o paradiso vicario. Ma è strano come
Chateaubriand, che si situa alle origini, per così dire, leggendarie
del rapporto poi sempre più inestricabile tra i fatti della vita e
la loro metafora, abbia interpretato questo fenomeno nel modo più
sorprendente, e ne sia stato sotto certi aspetti un critico
intransigente e severo. Non esiste in Chateaubriand la psicologia.
Esiste, pronunciatissimo, un io sistematicamente autoreferenziale,
che si mostra col tempo sempre più insensibile ai fatti dell' anima,
alle autoanalisi, alle confessioni, alle indagini del profondo.
A metà circa della
seconda parte dei Mémoires d'outre-tombe, accingendosi a
raccontare il processo e la fucilazione del duca d' Enghien,
Chateaubriand ha un momento di esitazione e di riflessione. Prende
tempo, sa che quella morte è l'episodio che ha deciso della sua
vita. Sa che è stato un delitto compiuto con la ferocia frettolosa
con cui si sgozzano e si seppelliscono le vittime scomode - di notte,
al più presto, per non farne sentire i gridi. Sa anche che è stato
il sacrificio di una vittima consacrata. Ogni dittatura ha il suo
sangue, intimo o estraneo, Mussolini il suo Matteotti, Hitler il suo
Rohm, e Napoleone il duca d'Enghien (per una ragione che ignoriamo,
il sangue versato ha l'effetto di un lasciapassare).
Dopo trentaquattro anni
che cosa si prova a rimestare in quell'episodio? E' autunno, gli
uccelli migratori sono in viaggio, l'inquietudine e le nuvole
spingerebbero a fuggire e a cambiare di clima. Per ingannare l'ansia,
l'autore dei Mémoires corre a Chantilly. E' là che
Louis-Antoine-Henry de Bourbon, duca d'Enghien, ha visto la luce. A
Chantilly il cielo è ancora più coperto che a Parigi. Volano delle
cornacchie. La pioggia sorprende il visitatore durante una
passeggiata. Racconterà la morte del duca d'Enghien sotto la
pioggia, in una locanda "à la vue des ruines de Chantilly".
"Ai tempi di René,
avrei trovato chissà quanti misteri della vita nel ruscello della
Thève: libera la sua corsa tra le madreselve e i muschi; le canne lo
velano; muore in quegli stagni alimentati dalla sua giovinezza,
morendo senza tregua e senza tregua rinascendo; le sue onde mi
incantavano quando portavo in me il deserto coi fantasmi che mi
sorridevano, nonostante la loro malinconia, e che io colmavo di
fiori". I "mystères de la vie", gli affari del
cuore, i fatti del profondo sono una malattia da cui si guarisce, da
cui si deve guarire. Si può assumere questo giorno di ottobre del
1838 (o 1837) come una piccola allegoria, un contrasto, il dibattito
tra due posizioni letterarie. Insensibilmente, tenacemente, la Storia
ha rosicchiato tutte le provviste della psicologia, e alla fine l'ha
uccisa. L'anima può essere anche una corazza. Chateaubriand è il
contrario di Rousseau. Le profondità e i problemi dell'io non lo
interessano, il gusto dell'introspezione dopo un po' lo annoia, le
confessioni si fanno a Dio e si risparmiano al prossimo.
Paradossalmente, ma non tanto, è stato il cattolicesimo a insegnare
a Chateaubriand come si fa a dare poca, pochissima importanza ai
fatti dell' anima. "L' ame supérieure n' est pas celle qui
pardonne; c' est celle qui n' a pas besoin de pardon": massima
forse poco cristiana e molto aristocratica e magari molto bretone, ma
nella quale c' è tutto Chateaubriand. Con tanti spurghi dai
sottosuoli, che almeno qualcuno ci regali i ricordi di un Super-io.
Che cosa sono, e che cosa rappresentano, nella storia del genere
letterario a cui appartengono di diritto, i Mémoires
d'outre-tombe?
Che posto occupano i
ricordi di Chateaubriand nell' infinita galleria dei grandi o minori
protagonisti della storia di Francia che hanno affidato alla penna il
racconto di avvenimenti vissuti in prima persona? Esiste una
continuità, tra i Mémoires d'outre-tombe e un genere
letterario di tradizione aristocratica e mondana, un genere
codificato che ha il suo grande, drammatico momento nei memorialisti
della Fronda? Una delle sorprese dei Mémoires d'outre-tombe è
il loro basso grado di narratività, bassissimo e sconcertante se
messo a confronto con la loro tonalità di partenza. Nei ricordi di
Chateaubriand l'io non si racconta; si manifesta, entra in scena e
mangia tutto il mondo. I Mémoires d'outre-tombe si direbbero
una personificazione, quello che in termini retorici (non
psicologici) si chiama "prosopopea". Un autore s'
identifica coi fatti storici del proprio paese e li interpreta,
chiaroscurando gli avvenimenti con accorgimenti esteriori e raccordi
drammatici tra l' io e quel che succede. Tutto è fermo, sincronico
rispetto a chi dice io. Molto più della voce di un sognatore si
sente il bureau, il gabinetto del ministro, il viavai dei dispacci,
un rumore di voci e di folla che arrivano da fuori per spegnersi
nella solitudine di un edificio dai vuoti e innumerevoli corridoi, un
castello dai balconi gelati e irreali, e dalle guglie perdute nella
nebbia. Un'epopea? Un filmato? Un documentario montato
artificialmente attraverso date posticce e colpi di teatro
preordinati "diaristicamente" (i famosi "prologhi")?
Una raccolta di testi "pour servir à l'histoire de France"?
Un timbro, un certificato d' esistenza per sottrarsi a un inevitabile
destino di vanità? Uno specchio dove guardarsi e sentirsi reale? Una
lagna sul passato che fugge?
Si sa che cosa succede
quando si legge un libro sopraffatti da emozioni diverse. Ci
sforziamo di padroneggiare studiando tutte le distanze possibili
dall'oggetto che abbiamo davanti. Cambiamo di posizione, prendiamo e
abbandoniamo il libro, lo puntiamo, lo miriamo, lo affrontiamo,
shooting, per così dire, sparando come fanno i fotografi per
estrarre l'anima dal modello. Ma davanti ai Mémoires
d'outre-tombe mi sono sempre arreso. Una catasta di documenti
sommerge una vita che grida disperazione, ma vuole restare sepolta.
Chateaubriand non ha modelli e non si appoggia alla tradizione. Tutti
i memorialisti francesi che lo precedono scrivono "dentro"
la Francia, viaggiano insieme alla storia del loro paese e ne
attraversano i fatti ora pacifici ora accidentati senza mai
sospettare che esista un limite, un confine oltre il quale la
corrente possa smettere a un tratto di trascinarli. Nasce da questa
meravigliosa e naturale identità con la propria terra quel maestoso
ron-ron di gente che racconta come russando, anche nei momenti più
drammatici - stile nel quale è regina, per il suo scarso interesse
personale nelle grandi vicende che racconta, Mme de Motteville. La
Francia di cui ci racconta Chateaubriand ha ben poco di questo fiume
sei e settecentesco di cui non si vedono le sponde. La Francia dei
Mémoires d'outre-tombe ha davanti a sé una di quelle pareti
immaginate dai cosmografi medievali per rappresentare la fine del
mondo, il confine dove il sole si tuffa e precipitano le acque dell'
Oceano. Chateaubriand è passato tre volte vicino a questa parete:
durante la Rivoluzione, al tramonto dell'Impero, e per tutti i lunghi
diciotto anni durante i quali ha scritto i Mémoires
aspettando di veder crollare il regno di Louis Philippe. La parete
non è dunque solo metaforica. A quale regime ha dato vita la
Monarchia di Luglio?
"Ciò che abbiamo
oggi sotto gli occhi è qualcosa di indefinibile che non è né
repubblica né monarchia, non è legittimismo né il suo contrario,
una semicosa che è tutto e niente, che non vive e non muore; una
usurpazione senza usurpatore, una giornata senza vigilia né domani".
Con queste idee, non c'è
da meravigliarsi se l'autore dei Mémoires ha finito per
convivere per vent'anni, tutto il tempo che è durata la sua
vecchiaia, con una Francia sognata e immaginaria, un po' madre e un
po' figlia, tracciandone la geografia, fissandone i confini
legittimi, e facendola coincidere con le proprie rigide e mutevoli
idee di "republicain par nature, monarchiste par raison, et
bourbonniste par honneur". Nella Francia dei "fils
de Saint Louis" c'è posto per Napoleone? O anche Napoleone
è un intruso? Per un buon quarto, i Mémoires d'outre-tombe
si dedicano a sciogliere questo interrogativo. Più brucianti e
drammatiche, perché strettamente intrecciate a vicende politiche di
fresca data, le sommesse domande che l'autore dei Mémoires
sembra rivolgere ai propri sogni legittimisti e alla fedeltà verso i
Borboni. Questa lunga, contrastata storia piena di amarezze,
antipatie, malintesi, ha un epilogo non si sa più derisorio o
pietoso, che occupa quasi interamente la sconcertante quarta parte
dei Mémoires. Per la sua pronunciata configurazione
diaristica, e per un certo gusto dell'assurdo combinato con le
innumerevoli variazioni funerarie, la "quatrième partie"
dei Mémoires viene oggi particolarmente frequentata dalla
critica, e rischia, nell'ordine dei valori, di soppiantare la prima.
E' costruita per contrappunto, sul rispondersi di due figure che si
oppongono ma evitano di guardarsi. Da una parte, il grande scenario
in rovina della legittimità, il re in esilio, il castello semivuoto
di Praga; dall'altra il diario di viaggio, le futili e insignificanti
apparenze del mondo che ignora la Storia: una ragazza dalle gambe
nude, una viaggiatrice abusiva dalla gobba inquietante, uno
spettacolo di paese, una rondine, un servizio funebre (non può
mancare), e la propria stanza d'albergo minuziosamente inventariata;
microscopici fenomeni di vita minimalista, registrati da uno sguardo
incuriosito, ma gelato e impassibile. Usati in funzione simbolica, si
affacciano al proscenio più esigenti, forse più importanti e non
meno vani di una battaglia o di un consiglio dei ministri.
Il paradosso dei Mémoires
d'outre-tombe è che una costruzione fondata sulla Storia erode
strada facendo il suo fondamento: se siamo fatti di tenebra e di
sogno, se il destino individuale è una vanità, che cosa saranno i
destini collettivi? La Storia è immaginaria, "tant peu de
réalité est dans l'homme".
Se c' è una conclusione
da trarre dai Mémoires d'outre-tombe, è che la Storia altro
non è che i nostri stessi sogni. La Storia è un'emozione,
un'estensione della propria vita intima. Chateaubriand ha inventato
la Storia, solo che la sua invenzione è durata il tempo di scrivere
delle memorie. Dalla Restaurazione alla Monarchia di luglio, quale
mutamento culturale! Per Chateaubriand la Storia è lui stesso, senza
soluzione di continuità con la Francia dei secoli passati. Per
Michelet, la Storia è già quello che è per noi: il Passato, e il
regno dei libri.
“la Repubblica” 24
novembre 1995
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