24.6.15

Cesare Segre. Ritratti di critici per poter giudicare (Massimo Raffaeli)

Cesare Segre
Le edizioni della Chanson de Roland e dell'Orlando furioso hanno iscritto da tempo il nome di Cesare Segre fra i grandi maestri della filologia romanza, dentro la costellazione che annovera Pio Rajna, Michele Barbi e, ovviamente, Gianfranco Contini. Di quest'ultimo (che lo volle, giovanissimo, suo coadiutore per i Poeti del Duecento editi da Ricciardi nel 1961) lo studioso milanese ha sempre condiviso l'idea, la cui netta formulazione in forma di endiadi proveniva da Giorgio Pasquali, che non può esistere filologia in assenza di critica, e viceversa. Dunque non deve stupire che l'editore della Chanson e del Furioso sia il medesimo che ci ha insegnato a leggere Cent’anni di solitudine di Garda Marquez, le Soledades di Antonio Machado, le partiture deraglian-ti di Sklovskij e Gombrowicz o, da ultimo, le pagine di Virgilio Giotti, di Franco Scataglini e di Vincenzo Consolo, dove peraltro si rinviene una sua ferma, mai esibita, opzione civile. È il Segre che i lettori hanno imparato a conoscere da I segni e la critica (Einaudi 1968 e 2008), primo volume della serie dove la parola «critica» torna con puntualità nei titoli e che culmina adesso in Critica e critici (Einaudi, «PBE», pp. 238, € 19.00), un'opera valutabile, come già le precedenti per ogni passaggio di fase, alla maniera di un incremento e di un bilancio.
Lo stemma di Segre, col tempo divenuto di senso comune, corrisponde fin dagli anni sessanta a una osmosi di ecdotica e semiotica ovvero di filologia e strutturalismo, secondo procedure poi esplicitamente formulate nell'Avviamento all'analisi del testo letterario (Einaudi 1985 e '99). Il merito di Segre non è tanto quello di avere importato in Italia, e in un periodo ancora ipotecato dall'eredità crociana, gli strumenti dello strutturalismo quanto di averli immediatamente scampati dagli stessi limiti su cui hanno a lungo insistito i detrattori: l'abrogazione dell'incidenza storica nel testo e la reticenza sul giudizio di valore. Che la procedura non fosse né astorica né avalutativa lo si deve proprio al fatto che lo strutturalismo e la semiotica in Italia fossero appannaggio (almeno relativamente a Segre e ad altri della cerchia di «Strumenti critici» o di «Lingua e stile», e qui su tutti il nome di D'Arco Silvio Avalle) di maestri della filologia, la quale è disciplina storica e valutativa per eccellenza. Se perciò la cosiddetta Nouvelle critique e certi battistrada di «Tel Quel» potevano invaghirsi di una analisi del testo asettica, come fosse una totalità cartesiana e sincronicamente raggelata (perciò tradendo il modello analitico della celeberrima lettura di Les chats di Baudelaire a firma di Roman Jakobson e Claude Lévi-Strauss), per Segre la direzione era opposta: «Il nostro strutturalismo mostrò subito differenze decisive rispetto a quello francese (...) i francesi, razionalisti, applicavano un metodo deduttivo (esempio limite quello di Greimas), gli italiani, realisti, quello induttivo; perciò i francesi puntavano a grandi teorizzazioni mentre gli italiani teorizzavano di solito in funzione delle loro analisi critiche».
È un passo, in Critica e critici, tratto dal profilo di Leo Spitzer e pertanto di un linguista e filologo romanzo divenuto per forza di cose un eminente critico letterario: tracciato per tutt'altra via, tale è il cammino di Segre, che fu allievo del linguista Benvenuto Terracini, del filologo Santorre Debenedetti e infine di Contini, vale a dire un linguista che divenne il combinato disposto di critica e filologia. Il nome di Leo Spitzer inaugura la prima parte di Critica e critici che circoscrive, nel lungo periodo, il campo di Cesare Segre.
Sono ritratti, bilanci bio-bibliografici, talora memorie autobiografiche che con la consueta limpidezza di lingua e di stile ritmano il suo percorso individuale mentre propongono delle vere e proprie intersezioni. Persuaso che nell'ottica di un critico non siano i testi a doversi diluire nella storia ma debba essere la storia, semmai, rintracciata nei testi (così suona il titolo di un suo fortunato manuale scolastico, redatto anni fa con Clelia Martignoni), vicino ai nomi di Spitzer e Contini non possono mancare quelli di Erich Auerbach e di Jurij Lotman unitamente ad altri relativamente meno prevedibili, come Cesare Brandi, Meyer Shapiro, Jean Starobinski e infine Cesare Cases, il cui ricordo commosso si libera nell'aforisma che sa restituire al presente il tratto decisivo di un uomo davvero indimenticabile: «Fu lukacsiano, goldmanniano, marxista? In qualche misura sì, ma fu, prima e sopra, intelligente. L'intelligenza è l'elemento dominante e qualificante di tutto il suo lavoro».
Il nome di Michail Bachtin si accampa invece nella seconda sezione del volume, dedicata alla teoria della letteratura e a riprova di almeno due fatti: il primo, risaputo, rimanda al fatto che Segre è il massimo interlocutore di Bachtin in Italia e insieme un suo attivo ricettore (e basterebbe citare, per lo studio del romanzo, la fecondità del concetto di «cronotopo»); il secondo, niente affatto ovvio, ribadisce la sua capacità di misurarsi con una materia di più incerta e più complessa formalizzazione rispetto alla poesia, cioè la prosa di romanzo, che lo strutturalismo alla francese ha preteso di sbrigare con gli algidi grafemi di Greimas o coi moduli seriali, non sempre perspicui o talvolta fin troppo perspicui, di Gérard Genette. Qui Bachtin, in un saggio di comparatistica critica, viene messo al cospetto di Contini e in una prospettiva dove si fronteggiano e si oppongono le categorie di «polifonia» e di «espressionismo» coi nomi primi di Rabelais e Dostoevskij da un lato e di Carlo Emilio Gadda dall'altro. È un saggio baricentrico che lascia tuttavia al lettore una conclusione cui Segre, con grande tatto e costante riconoscenza per il maestro, non può o non vuole arrivare: e cioè, sia detto senza alcuna iattanza, la sordità di Contini alla forma-romanzo e la sua costante fedeltà (crociana, sottotraccia) alla lirica come espressione privilegiata e persino esaustiva della letteratura, di cui sono conferma sia il credito costante alla simil-lirica presto battezzata prosa d'arte sia gli specifici saggi di settore, dallo splendido, già indiziatissimo in tal senso, saggio giovanile su Proust alle pagine mature su Gadda dove la categoria di «espressionismo» continua a sembrare più un alzo zero del codice lirico, la sua definitiva apertura, che non una plausibile chiave d'accesso alla plasticità centrifuga/centripeta della forma-romanzo. (Segre in persona ne diede virtualmente una prova nel saggio memorabile, contenuto nei Segni e la critica, in cui riconduceva al suo alveo più modesto lo scrittore palermitano Antonio Pizzuto, colui che era stato il dernier cri dello stesso Contini).
Nemmeno è un caso che la terza parte di Critica e critici, muovendo dal Furioso, culmini in un saggio sul Chisciotte, che di tutti gli immaginabili romanzi rimane l'archetipo: «La grande scoperta di Cervantes è stata quella di non aderire a priori a uno dei mondi possibili». Anche il fatto che Cesare Segre metta al centro della riflessione e proponga con perfetta ostinazione ai suoi contemporanei la parola «critica» equivale a un richiamo, anzi alla ferma persuasione che noi, dopo tutto, non viviamo nel migliore dei mondi possibili.


"alias il manifesto la talpa", 29 luglio 2012

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