14.6.15

Parma 1922. Barricate contro il fascismo (Guido Picelli)

Nel 2012 “alias”, il magazine del “manifesto”, per commemorare la rivolta antifascista di Parma nell'estate del 2012, utilizzò stralci da un articolo rievocativo scritto da Guido Picelli, il capo degli “Arditi del Popolo”, per “Lo Stato Operaio”, la rivista teorica che il PCI dell'emigrazione pubblicava a Parigi negli anni Trenta. Riprendo i brani eliminando l'indicazione delle parti saltate, quelle parentesi (…), che appesantisce la lettura, benché qualche scarto qua e là s'avverta. (S.L.L.)
Parma fa circa settantamila abitanti ed è attraversata dal torrente omonimo che divide la città in due parti: l'una di maggiore estensione detta «Parma nuova», ed abitata particolarmente dalla borghesia; l'altra «Parma vecchia», o anche «Oltretorrente» con maggioranza operaia.
Il proletariato parmense ha una tradizione di lotte barricadiere che risale alla rivolta del 1898 e prima ancora. Lo sciopero agricolo del 1908, durato per dei mesi in tutta la provincia, fu una delle agitazioni più importanti dei contadini in Italia.
Il fascismo locale non è mai riuscito, né con la propaganda né con l'azione a svilupparsi e a dominare come nelle altre province. Gli «Arditi del Popolo», sorti anche a Parma sin dal 1921 per iniziativa di un gruppo di operai di tendenze diverse, contro la volontà dei capi degli organismi politici e sindacali, tennero testa per più di un anno, in città e nella campagna, alle camicie nere con una continua ed incessante attività difensiva ed offensiva. Qui il movimento si differenziò un poco da quello delle altre province per la sua maggiore disciplina e per l'applicazione tecnica nella tattica delle operazioni armate di strada.
L'Alleanza del Lavoro, costituitasi sotto la pressione delle masse, aveva il 31 luglio (1922 n.d.r.) proclamato lo sciopero generale nazionale; ma il Comitato centrale dell'Alleanza stessa, influenzato dai capi socialdemocratici, che vi rappresentavano i massimi organismi, all'intimazione di Mussolini e alle minacce di rappresaglie, lo fecero subito cessare, ordinando la ripresa del lavoro.
La situazione precipitava. Gli «Arditi del Popolo», senza il partito che indicasse la linea politica e gli obbiettivi rivoluzionari da raggiungere, avevano esaurito lo slancio offensivo nella pura e semplice contro azione squadrista. Nell'Emilia, nel Veneto, nella Liguria, nella Toscana, ove maggiore fu la resistenza del proletariato, nelle file operaie si erano prodotti dei vuoti per le numerose perdite subite, rotti i legami fra le azioni difensive, località battute ripetutamente dalle bande armate nemiche; le masse, nuovamente costrette alla ritirata. La vittoria del fascismo, non era però ancora completa. C'era ancora una posizione nell'Emilia che resiste: Parma.
Nella notte dall'uno al due agosto, giunsero i primi reparti di camicie nere con autocarri provenienti dalle province emiliane, dal Veneto, dalla Toscana e dalle Marche, equipaggiati ed armati di moschetti nuovissimi, rivoltelle, bombe e pugnali, e provvisti di una gran quantità di munizioni; squadristi scelti, provati ed esperti nella tattica della spedizione punitiva.
Alla testa delle colonne erano i consoli: Moschini, Farinacci, Raineri, Arrivabene, Barbiellini, Ponzi ed altri minori. Comandante in capo della spedizione, che in breve raggiunse la cifra di ventimila uomini, Italo Balbo. Il questore di Parma, commendator Signorile, dopo aver dichiarato ai membri del Comitato locale dell'Alleanza del Lavoro, che nulla avrebbe potuto fare per impedire il concentramento, fece ritirare dalle due caserme situate nell'Oltretorrente i carabinieri e le guardie regie per lasciare alle camicie nere maggiore libertà d'azione.
Il Comando degli «Arditi del Popolo» appena ebbe notizia dell'arrivo del fascisti, convocò d'urgenza capisquadra e capigruppo e dette loro disposizioni per la costruzione immediata di sbarramenti, trincee, reticolati, con l'impiego di tutto il materiale disponibile. All'alba, all'ordine di prendere le armi e di insorgere, la popolazione operaia scese per le strade, impetuosa come le acque di un fiume che straripi, con picconi, badili, spranghe ed ogni sorta di arnesi, per dar mano agli «Arditi del Popolo» a divellere pietre, selciato, rotaie del tramway, scavare fossati, erigere barricate con carri, banchi, travi, lastre di ferro e tutto quanto era a portata di mano. Uomini, donne, vecchi, giovani di tutti i partiti e senza partito furono là, compatti, fusi in una sola volontà di ferro: resistere e combattere.
In poche ore, i rioni popolari della città presentarono l'aspetto di un campo trincerato. La zona occupata dagli insorti fu divisa in quattro settori: Nino Bixio e Massimo D'Azeglio nell'Oltretorrente; Naviglio e Aurelio Saffi in Parma Nuova.
Ad ogni settore corrispose un numero di squadre in proporzione alla sua estensione: ventidue nei settori dell'Oltretorrente, sei nel rione Naviglio, quattro nel rione Aurelio Saffi. Ogni squadra era composta di otto-dieci uomini, e l'armamento costituito da fucili modello1891, moschetti, pistole d'ordinanza, rivoltelle automatiche, bombe S.I.P.E. Soltanto una metà degli uomini poterono essere armati di fucile o di moschetto. Tutte le imboccature delle piazze, delle strade, dei vicoli, vennero sbarrate da costruzioni difensive. Nei punti ritenuti tatticamente più importanti i trinceramenti furono rafforzati da vari ordini di reticolato e il sottosuolo venne minato. I campanili, trasformati inosservatori numerati. Verso le nove i fascisti aprirono il fuoco. Per l'intera giornata si susseguirono attacchi e contrattacchi lungo la linea di resistenza ma che non produssero notevoli modificazioni alla situazione. Nella notte qualche fucilata e piccole azioni da parte di pattuglie nemiche, segnalate dal settore Naviglio con razzi luminosi.
Un reparto di camicie nere, venendo dal piazzale della Pilotta, attraversò il ponte Giuseppe Verdi per tentare un'irruzione nelle linee degli «Arditi del Popolo»; ma appena giunse in vista dei primi sbarramenti, resosi conto della serietà del pericolo cui sarebbe andato incontro se avesse ancora avanzato di un passo, rinunciò all'impresa e si ritirò.
Contemporaneamente in Parma Nuova, vennero danneggiati studi ed uffici di professionisti, noti come socialisti, da parte di gruppi di camicie nere. Ma gli attacchi più accaniti si svolsero attorno al Naviglio, che per la sue particolare posizione topografica, presentava maggiori difficoltà di resistenza. Dopo parecchie ore di combattimento, il settore fu quasi accerchiato. Da via Venti Settembre le camicie nere avanzarono in colonna serrata, risolute al definitivo assalto. In quel momento decisivo non rimase che un solo ed unico mezzo: uscire e contrattaccare. Infatti gli «Arditi del Popolo», balzarono dagli appostamenti e al canto di Bandiera rossa si lanciarono a gran corsa contro il nemico. Furono pochi contro molti; uno di essi, l'operaio Mussini Giuseppe, cadde colpito mortalmente. Ma gli «Arditi del Popolo», non si arrestarono. Più alto si levò il loro
canto e più rapido si fece il tiro dei fucili che già bruciavano nelle loro mani. Di fronte a quel pugno di eroi i fascisti presi da sgomento, ed immaginando che dietro le barricate, nelle trincee e nelle case, si nascondessero chissà quante forze e quali armi, indietreggiarono da tutti i punti fino oltre Barriera Garibaldi.
Al terzo giorno, la situazione del Naviglio si aggravò nuovamente. I fascisti bloccarono i passaggi obbligatori che conducevano all'Oltretorrente. Il collegamento venne perduto. I colombi viaggiatori impiegati anch'essi come mezzo di comunicazione, furono lanciati tutti. Finalmente, una donna, un'operaia, con molte difficoltà riuscì a portarsi nella sede del Comando degli «Arditi del Popolo», in Parma Vecchia e consegnare un biglietto che teneva nascosto fra i capelli, così concepito: «Altri due morti: Nino Gazzola e Avanzini Ugo. Il portaordini ferito. Munizioni quasi esaurite; mancano i viveri. Si chiede l'invio immediato di pallottole da fucile e da rivoltella, diversamente saremo costretti di ripiegare, nella notte, sull'Oltretorrente. Si attendono disposizioni. - Il comandante del settore».
La donna ritornò con quanti caricatori poté portare celati nelle vesti e recò la risposta seguente: «L'ordine è resistere e morire sul posto. Voi ne siete capaci. Troveremo il modo di farvi pervenire munizioni e viveri al più presto possibile. - Il Comando della difesa operaia».
Nel frattempo l'autorità militare, a cui il Prefetto cedette i poteri, si mise in comunicazione coi membri del Comitato locale dell'Alleanza del Lavoro, capi socialisti, sindacalisti interventisti e confederali, i quali non avendo potuto impedire apertamente alle masse di insorgere, per tema di essere smascherati, vedendosi, in quei giorni, esautorati e messi in disparte, accettarono di trattare il compromesso impegnandosi di far opera di persuasione fra gli operai per indurli a cessare la resistenza.
Il giorno cinque, a conclusione di tutta questa manovra, l'autorità militare, credendo che anche in quel momento i capi socialisti e confederali rappresentassero la volontà delle masse o comunque potessero influire su di loro, inviò un battaglione di soldati nell'Oltretorrente per disfare le trincee e le barricate e facendo sapere che i fascisti si sarebbero allontanati dalla città, a patto che la popolazione deponesse le armi.
«Le trincee non si toccano, esse costituiscono la legittima difesa della vita degli operai e dei loro quartieri, contro ventimila camicie nere armate, venute da tutte le parti». Questa fu la risposta.
Nelle prime ore del giorno sei, notizie certe informarono che lo stato maggiore fascista aveva deciso di sferrare un'offensiva in forze contro l'Oltretorrente per le ore tre pomeridiane.
Dopo aver riuniti i capi squadra per dar loro gli ordini necessari, il Comando degli «Arditi del Popolo» fece una rapida ispezione per tutto il settore. Il morale della massa si dimostrò elevatissimo. Un elemento molto importante del successo, nella lotta armata è la certezza di vincere. È interessante osservare come questa certezza fosse in ognuno assoluta; nessuno ebbe il più piccolo dubbio. Nelle case si attese alla fabbricazione di ordigni «esplodenti», di pugnali fatti con lime, pezzi di ferro, coltelli, e alla preparazione di acidi. Dalle finestre di una delle casupole di Borgo Minelli, una ragazza di diciassette anni, tenendo levata in alto una scure ed agitandola, gridò ai compagni sulla via: «Se vengono, io sono pronta!». Alle donne vennero distribuiti recipienti pieni di petrolio e di benzina, poiché in base al piano difensivo, nel caso in cui i fascisti fossero riusciti ad entrare in Oltretorrente, il combattimento si sarebbe svolto strada per strada, vicolo per vicolo, casa per casa, senza risparmio di sangue, con lancio di liquidi infiammabili, contro le camicie nere e sino alla distruzione completa delle posizioni.
Alle due circa, dalla destra del torrente, furono sparati i primi colpi contro il settore Nino Bixio e presi d'infilata Borgo della Carra e Borgo Salici. Ulisse Corazza, artigiano, consigliere comunale del Partito popolare (il Partito dei cattolici) che qualche ora prima si era presentato col proprio moschetto a un caposquadra, per chiedere di partecipare al combattimento a fianco degli Arditi del Popolo, fu ferito gravemente alla testa da pallottola di fucile e morì pochi minuti dopo. Si trattò di un'azione dimostrativa tendente a trarre in inganno i difensori sugli obbiettivi reali del piano d'attacco, mentre alla sinistra dell'Oltretorrente reparti di camicie nere, penetrati nei giardini pubblici, avanzarono in direzione del muro di cinta. Non fu una sorpresa; prevista la manovra, gli «Arditi del Popolo», dai posti di guardia, iniziarono immediatamente il fuoco di fucileria con tiro regolato, in base agli ordini impartiti, in modo da causare all'avversario le maggiori perdite possibili con il minor consumo di munizioni.
A nulla valsero gli incitamenti dei comandanti. Di fronte alla precisione dei fucilieri proletari, non più possibile avanzare. Lentamente, al riparo delle piante, le camicie nere ripiegarono sulle posizioni di prima. Alla mattina del sette, dagli osservatori si notarono movimenti confusi e disordinati di colonne spostantesi da un punto all'altro della periferia della città.
I fascisti non più inquadrati e alla rinfusa, si riversarono in tutte le direzioni; coi treni in partenza, con autocarri, biciclette, a piedi, frettolosamente, senza comando. Non fu una ritirata, ma addirittura lo sbandamento di una massa di uomini che prese d'assalto tutti i mezzi di trasporto che incontrò, che si gettò per le strade e fuori delle strade, per la campagna, come se temesse di essere inseguita.
Al di qua e al di là del torrente, tutta la popolazione operaia all'annuncio della partenza dei fascisti, si gettò per le vie della città con armi e senza armi, in un'indescrivibile esplosione di entusiasmo, e improvvisando imponenti cortei; mentre dalle finestre delle case di Parma Vecchia, vennero esposti drappi rossi. La notizia della vittoria operaia si diffuse rapidamente anche in provincia. Molti proprietari di terre, presi da spavento perchè sentirono dire che sarebbero arrivati gli «Arditi del Popolo», abbandonarono le abitazioni, fuggendo verso il Cremonese.
Le schiere di Balbo, ormai disperse vennero perdute di vista. La spedizione punitiva in grande stile contro il proletariato parmense si trasformò in un disastro. Le camicie nere ebbero trentanove morti e centocinquanta feriti. Dalla parte dei difensori vi furono cinque morti e qualche ferito.
  • Da Lo Stato Operaio, anno VIII, n. 10, ottobre 1934, Parigi.
  • In “alias il manifesto”, 28 luglio 2012

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