22.6.15

I trovatori e il disamore (Lorenzo Tomasin)

Il celebre trovatore Rambaut di Vaqueiras in una miniatura
Che senso ha leggere i Trovatori? Tramontato il mito romantico del loro aurorale primitivismo (hanno fatto, sì, germinare la poesia europea, ma sopra radici culturali poderose, illuminate da generazioni di eruditi); appannato - forse - ai nostri occhi il fascino letterario dell’amor cortese con i suoi riti, tutto sommato ripetitivi e stilizzati; sommerse le loro rime dalle successive grandi stagioni della poesia lirica europea: perché proprio i Trovatori, cioè una pattuglia di poche centinaia di poeti fiorita, con centro la Provenza, tra Catalogna e Italia prima di Dante e Petrarca?
La domanda è facilmente eludibile con un’autogiustificazione accademica: esiste una disciplina chiamata Filologia romanza (i non-laureati-in-lettere spesso la ignorano, ma è, o dovrebbe essere, un cardine della nostra educazione umanistica: lo studio dei testi scritti nelle lingue derivate dal latino) che ha fatto della letteratura provenzale antica la sua principale palestra. La Filologia romanza, e in particolare occitanica, in Italia sta abbastanza bene, specie rispetto ad altri Paesi. In Francia, per dire, è stata praticamente sterminata con la stessa risolutezza che nel Duecento guidò la crociata contro gli eretici albigesi. Pur nei mala tempora, in Italia si coltivano ancora gli studi di robusta scuola filologica che hanno svelato all’Europa i Trovatori: la monumentale Bibliographie des Trobadours del tedesco Alfred Pillet, del 1933, ancora utilissima, è stata ora ripubblicata e ben aggiornata da Paolo Borsa, Roberto Tagliani e Stefano Resconi (e Stefano Asperti l’aveva già messa in internet). In Italia si pubblicano le migliori edizioni dei poeti di Provenza e i commenti più raffinati. Ma di tutto questo al pubblico arriva poco, e ciò non risponde alla domanda da cui siamo partiti.
Tra le risposte possibili, se ne può cercarne una nelle Canzoni occitane di disamore (Carocci, 2014) appena pubblicate da Francesca Sanguineti e Oriana Scarpati. Ottimo campo di prova: è un’antologia, felicemente pensata, delle poesie che i trovatori dedicano al tema opposto a quello usuale: non l’innamoramento ma la fine dell’amore. Che significa: constatazione di crudeltà, scorrettezza, venalità o ingenerosità della donna che si è poeticamente servita e riverita. Con le parole di Bernart de Ventadorn: «Mout l’avia gen servida / tro ac vas mi cor volatge; / e pus ilh no m’es cobida, / mout sui fols, si mais la ser» («l’avevo servita molto nobilmente finché non manifestò un animo volubile nei miei confronti, e poiché ella non mi è destinata, sono davvero folle se la servo ancora»). Più esplicito e iattante Raimbaut de Vaqueiras: «Ges no pres un botacis / dona que aitals sia / c’un prenda et autre.n lais» («Non apprezzo uno sbuffo una donna che si comporti in modo tale da prendere uno e lasciarne un altro»).
Come accade anche ai non-trovatori, il disamore implica deprecazione dell’amore in sé. Folchetto, con la sua eleganza: «Amor, per so m’en soi eu recresuz / de vos servir, que mais no n’aurai cura; / c’aissi com mais prez’hom laida pentura / de long, no fai cant es de pres venguz, prezava eu vos mais can no.us conoissia» («Amore, per questo ho abbandonato il vostro servizio e non me ne interesserò mai più; perché così come si apprezza maggiormente un brutto dipinto da lontano rispetto a quando è vicino, io vi apprezzavo di più quando non vi conoscevo»).
Più spesso, ci si risolve nella decisione di servire un’altra donna, da cui si spera di avere miglior guiderdone (guizardo). Raimbaut d’Aurenga: «Ar sui partitz de la pejor / c’anc fos vista ni trobada, / et am del mon la bellazor / dompna, e la plus prezada» («ora mi sono allontanato dalla peggiore che esista, e amo la più bella donna del mondo, e la più valente»). Resta il diritto se non proprio d’insultare la precedente amata (ché sarebbe contrario alle regole della cortesia), di esporla al dileggio. Peire Cardenal: «la m’amia no mi tenra / si ieu lieys non tenia, / ni ia de mi non iauzira / s’ieu de lieys non iauzia» («la mia amica non mi avrà mai se io non la posseggo, né di me godrà se io non godo di lei»).
Arguto, certo, anche se in fondo poco originale (di rado lo è la poesia medievale, nel senso che intendiamo oggi). Quel che forse è davvero suggestivo per il pubblico italiano - proprio perché familiare, ma altrove introvabile - è ciò cui il lettore di traduzioni non fa caso. Ottima la scelta delle curatrici di mettere una versione a fronte, ma di ridurla all’osso e di scioglierla in prosa, quasi per ricacciare continuamente l’occhio verso il testo originale scritto in una lingua da cui italiani, francesi, spagnoli d’oggi si sentono allo stesso grado lontani e vicini. Si capisce perché i pionieri degli studi trobadorici credettero (a torto, si chiarì poi) di vedere in questa lingua la madre comune di tutte quelle neolatine di oggi. Ecco: è forse la lingua dei trovatori - di fatto dimenticata o trascurata per secoli - a regalare il piacere maggiore a chi oggi la legge con occhi diversi da quelli dello studioso: una lingua difficile ma non impenetrabile, straniante e divertente, in cui si sperimenta nel modo più concreto la distanza, e insieme la mirabile familiarità di questi amorosi disamorati.


“Il Sole 24 ore Domenica”, 19 gennaio 2014

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