28.9.15

Santa Libera 1946. I partigiani rossi contro Togliatti (Mario Baudino)

I partigiani che nel 1946 clamorosamente tornarono sulle montagne, come qui si racconta, nutrivano preoccupazioni fondate. I fascisti non solo furono amnistiati, ma tornarono ad esercitare importanti funzione nell'esercito, nella magistratura, nella polizia, nella burocrazia, mentre prima strisciante, poi sempre più esplicita e diretta, la repressione colpiva i partigiani. A tutti consiglio di leggere il libro di Frassinelli e Graziano, Un'odissea partigiana, pubblicato qualche mese fa da Feltrinelli. (S.L.L.)
Agosto 46 - Partigiani a Santa Libera. A sinistra in piedi Armando Valpreda

da ASTI
Fu la prima protesta ad alto impatto mediatico della neonata Repubblica, con un pugno di partigiani venuti da Asti ad asserragliarsi sulla rocca che domina Santo Stefano Belbo, l'assedio delle forze di polizia, i giornalisti che andavano e venivano, gli insorti che rilasciavano interviste, le esagerazioni del caso, come quando il comandante Giovanni Rocca, focoso combattente, disse che erano in duemila, moltiplicando per dieci il numero degli effettivi. Ma in quei giorni di 60 anni fa, tra il 20 e il 26 agosto, si rischiò davvero la guerra civile nel nome di Santa Libera, la frazione di Santo Stefano posta teatralmente in alto, sui vigneti e sul paese, dove i partigiani di Asti avevano di nuovo impugnato le armi contro l'amnistia firmata due mesi prima dal guardasigilli Palmiro Togliatti. Ed erano tutti, o quasi, comunisti con tessera.
Vennero presi terribilmente sul serio, come richiedeva la situazione. Con loro trattò il Pci, attraverso un mitico capo come Cino Moscatelli, e l'intero governo di unità nazionale, attraverso Pietro Nenni (De Gasperi era in Francia per la conferenza di pace). Non riuscirono certo a far cancellare l'amnistia che aveva posto fine a una pur blanda epurazione dei fascisti, ma ottenero, almeno in termini economici e ideali, qualcosa di significativo: vennero infatti stabiliti, per successivi decreti legge, i provvedimenti economici «minimi» per chi aveva fatto la Resistenza, dal riconoscimento del servizio reso come servizio militare alle pensioni per le vedove e gli orfani. È vero che parallelamente iniziò la riorganizzazione delle forze di polizia, da cui furono esclusi quasi tutti gli ex partigiani, soprattutto comunisti, insomma cominciò il ritorno all'ordine. Ma la breve epopea di Santa Libera rappresentò il punto di non ritorno in una deriva politica che avrebbe potuto avere esiti molto diversi, e spaventosi.
Quella storia è stata ricostruita da Laurana Lajolo, la figlia dello scrittore partigiano che su quella rocca salì con Raf Vallone per convincere i ribelli (e ci scappò pure una fucilata, forse l'unica della settimana, come ricorda nel suo diario). Il saggio, frutto di dieci anni di lavoro, si intitola semplicemente I ribelli di Santa Libera ed è uscito qualche anno fa per le edizioni del Gruppo Abele. È in pratica l'unica ricerca che esista in materia. Il che sembra curioso. «Forse perché nessuno aveva interesse a enfatizzare l'episodio, ragion per cui i documenti sono rimasti a lungo chiusi nei cassetti. E forse perché, col tempo, si è pensato a questa vicenda come a un piccolo fatto provinciale e lontano». Non fu così. Il dramma di Santa Libera è stato un crinale sottile su cui ha camminato, per qualche giorno o per qualche settimana, la storia dell'Italia moderna. I giovani partigiani che vi erano confluiti, sotto la guida di Armando Valpreda, erano solo la punta emergente di una profonda scontentezza nelle file di chi aveva fatto la Resistenza.
In quei giorni gli operai della Fiat tennero pronto un camion per raggiungere se necessario le Langhe, ci furono manifestazioni in Toscana, dal Sud arrivarono segnali di forte irrequietezza. La repubblica di Santa Libera non era un episodio come tanti altri, in un paese ancora sconvolto dallo strascico della guerra, dove molti non riuscivano a deporre le armi e si consumavano violenze e vendette personali o politiche. Era un segnale d'allarme. Come ricorda l'ultimo testimone, l'astigiano Giovanni Gerbi, partigiano a 15 anni e a 17 là, sul poggio, col suo comandante Armando, «per noi ricominciava la Resistenza. I partiti, Pci in testa, non erano d'accordo, ma tutte le associazioni partigiane aspettavano da mesi qualcosa del genere. Eravamo pronti». Ma a far che cosa? Domanda senza risposta. Armando Valpreda, la mente più lucida, stratega generoso e idealista, aveva intenzione di tornare in Langa, semplicemente, fino a che le richieste partigiane non fossero soddisfatte. In che modo, e come ci sarebbe potuto rimanere, non è chiaro.
Rimanere a Santa Libera, circondati e con una risonanza enorme, fu più la conseguenza del caso che una scelta. I partigiani erano andati sulle colline senza clamore, ma dato che il grosso del loro gruppo era composto da poliziotti di Asti, che si servirono di armi e mezzi direttamente in caserma, il questore dette subito l'allarme anche se non li fece inseguire, forse per mancanza di uomini, forse per saggezza. Così la notizia che «i partigiani sono tornati su» deflagrò, accendendo speranze, incutendo timori. Dal 20 al 26 agosto, si trattò ininterrottamente. Erano una miccia innescata, bisognava farli scendere senza che esplodesse un grande incendio. «A parte Nenni, che fu sempre con noi, tutti gli altri erano pronti a spararci addosso», ricorda Giovanni Gerbi. E non è detto che esageri. «Siamo tornati indietro perché tutti i mediatori, soprattutto quelli comunisti, usavano lo stesso argomento: ragazzi, qui finisce come in Grecia», cioè con una terribile guerra civile.
Alla fine, venne stilato un elenco di 12 richieste - da cui era sparito ogni riferimento all'amnistia - che il governo si impegnò a onorare. I partigiani tornarono ad Asti «per evitare una guerra civile che avrebbe fatto il gioco degli americani, degli occupanti», come scrisse Valpreda. E anche questa identificazione la dice lunga su quali fossero allora gli umori, quali fuochi covassero ancora. «Ci hanno convinto che pure l'amnistia era necessaria», sospira il partigiano Gerbi. Si consoli, sessantanni dopo ce n'è un'altra. Non proprio un'amnistia, un indulto. «Questa è roba da niente. Allora dalle carceri uscirono i fascisti che ci erano appena entrati. Guardi, per me Resistenza voleva dire libertà ed eguaglianza. Adesso è passato tempo tempo. Se ci penso, mi dispiace solo di essere stato preso in giro».


La Stampa, 26 agosto 2006

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Vincenzo "Cino" Moscatelli, non Gino.

Salvatore Lo Leggio ha detto...

Ho corretto, grazie.

statistiche