1.9.16

Cinema. L’anarchia pop dei Beatles (Flaviano De Luca)

Una immagine da "A Hard Day's Night"
Avete voglia di una corsa a perdifiato nella Beatlesmania? Cinquanta anni dopo Paul, John, George e Ringo tornano sul grande schermo con A Hard Day’s Night, il loro primo film tutto in biancoenero, datato 1964, un’esplosiva combinazione di pop music, ironia britannica, esuberanza anarchica e slang giovanile, tutto brillantemente restaurato e rimasterizzato in digitale (in lingua originale con sottotitoli italiani). Girato nelle otto settimane d’intervallo tra il tour americano e quello europeo, il loro primo film, A Hard Day’s Night, espressione buffa inventata da Ringo per intendere una sessione di registrazione notturna dopo una faticosa serie di prove (da noi venne ribattezzato Tutti per uno ma il titolo migliore fu quello brasiliano Os Reis do le-le-le) testimonia il periodo in cui i Fab Four diventano i singolari e irriverenti idoli della loro generazione, il momento magico della rivoluzione musicale dei sixties, il sapore anticonformista degli sberleffi alla grigia e repressiva società inglese, l’ottimismo di saper affrontare tutto con un sorriso contagioso.
Si comincia proprio con i quattro musicisti inseguiti da un’orda di fan urlanti e scatenati. Un’isteria collettiva che li accompagna in ogni dove, nel viaggio in treno da Liverpool a Londra per andare a registrare uno spettacolo televisivo e principalmente nei tanti esilaranti fuori programma in un teatro, in una conferenza stampa e in una stazione di polizia. I Beatles che fanno i Beatles, un musical jukebox o un finto documentario, una giornata di ordinaria follia nella vita del quartetto, posh e zazzeruto, tra gag surreali e spassosi contrattempi, stratagemmi narrativi per mostrare (ed eseguire) una dozzina di canzoni, diventate hit planetari. Come l’indimenticabile e potente accordo di Harrison che marchia la canzone del titolo, scritta da John in una sera e registrata il giorno dopo, e tutto il repertorio melodico-sentimentale da And I love her a If I Fell a I’m Happy Just to Dance with You, con la formazione schierata intorno alla batteria di Ringo, il piccoletto col naso a tromba, che scarica i complessi d’inferiorità picchiando sul tamburo, perseguitato da un vecchietto, accreditato come il nonno di Paul, imbroglione e linguacciuto (interpretato da Wilfrid Brambell, un attore famoso al tempo, proveniente dalla sitcom Steptoe and Son), assai perbene e molto piantagrane, motore dei tanti funambolici episodi della pellicola, dove compaiono anche due personaggi, Norm il manager (Norman Rossington) e Shake il tuttofare(John Junkin), ispirati dai veri assistenti personali della band di Liverpool.
«Prima di cominciare sapevamo che sarebbe stato improbabile che potessero a)imparare, b)ricordare e c)recitare con precisione una parte lunga. La struttura della sceneggiatura doveva quindi essere composta da una serie di battute – ricorda Richard Lester, il regista che si è affidato molto all’improvvisazione, conservando uno stile visivo fresco e spontaneo – questo mi ha permesso in molte delle scene di puntare una telecamera, dire loro una frase e fargliela ripetere».
Ecco così il dipanarsi di una comica con inseguimenti, sparizioni, mimica facciale, ballerine, angolazioni insolite, dai balli shake alle lunghe capigliature ondeggianti, dalle camicie con colli ampi come vele ai passatempi di una società ancora bacchettona uno dietro l’altro, lo shove ha’ penny , un classico gioco da pub, dove si lanciano delle monete su una tavoletta, le freccette, giocare a carte sul bidone di latta.
Oppure combinare una serie di pasticci come rompere boccali di birra, far cadere una signora in una buca dopo avergli messo un cappotto a terra per farla passare tra vaste pozzanghere, gesto romantico tipicamente inglese (chi ha dimenticato il mantello tagliato di San Martino?) o far apparire da una botola il nonnetto durante un’opera lirica e su tutti, il duetto tra George e Shake che non ha mai usato un rasoio a mano, sul farsi la barba mettendo la schiuma sullo specchio e raderla sulla superficie luccicante, in un gesto happening alla Man Ray.
Lester fa venir fuori l’energia trasmessa dal gruppo, corse sui prati e puntate al casinò, flirt con le truccatrici televisive e letture approfondite dei giornali, con una sfrenata vitalità, con la spregiudicata libertà creativa del Free Cinema britannico sperimentando soluzioni formali inaspettate e regalando al cinema musicale un nuovo gioiello rock. A Hard Day’s Night è ancora oggi, naif e ironico, uno dei più bei film musicali della storia del cinema e certamente una pietra miliare della generazione pop con la fotografia di Gilbert Taylor (che aveva già lavorato con Stanley Kubrick e che lavorerà quindi con Roman Polanski, Alfred Hitchcock e George Lucas), la sequenza dei brani ha spianato la strada a quello che sarebbe diventato il video musicale.
Il film venne presentato il 6 luglio 1964, al Pavillon Theatre di Londra, alla presenza della principessa Margaret e di Lord Snowden e fu subito il manifesto della rivoluzione culturale in arrivo, della swinging London mattacchiona e canterina, dell’ondata antiautoritaria internazionale. Accompagnato dall’omonimo, incredibile album dei Fab Four che raggiunse all’epoca vendite da capogiro, il film fu nominato agli Oscar, ai Grammy, ai Batfa .


“il manifesto”, 5 giugno 2014

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