24.9.16

Le donne doviziose di Fellini. Intervista di Leonetta Bentivoglio

Il regista parla dal fondo del suo posto al ristorante, 
vicino alla cassa.
Gli piace soprattutto far mangiare gli amici e guardarli.
Ha qualche rimpianto culinario, qualche idea, 
ma è la sua reticenza a dire di più.

A tavola con Fellini. Dalla Cesarina di via Sicilia naturalmente: il suo ristorante prediletto, da sempre.
Si conoscevano bene, lui e la Cesarina, fin dai tempi di Bologna, quando Federico era uno studentello magro, squattrinato, vitellone, con gli occhi grandi e curiosi. Lei, gigantesca, brontolona, generosa, più o meno identica a quella di ora, lo stesso incedere solenne e fiero che segue passo passo il carrello dei bolliti, gli orecchini preziosi e zingareschi che le ballonzolano sulle gote, il forte accento emiliano, la stessa aria di desolata repulsione di fronte a qualsiasi tentativo di dieta o comunque di scarsa adesione alla sua cucina, lei a quello studentello, spesso, faceva maternamente credito.
Quando, ai tempi della Dolce vita, la Cesarina si trasferì a Roma, aprendo il nuovo ristorante a due passi da via Veneto, Federico, ormai celebre regista, di lei non si era affatto dimenticato. Tanto è vero che fu proprio nel ristorante di via Sicilia che La dolce vita venne annunciato alla stampa, coi paparazzi scalmanati che puntavano i flash contro una Cesarina raggiante ritratta a braccetto con il Maestro, o assieme alla nordica Anitona, dal décolleté pannoso e la pelle d’alabastro.
Il ristorante fu lanciato, divenne alla moda: attori, politici, gente di cinema e di teatro, ricchi turisti americani, in molti cominciarono a frequentarlo. La padrona era simpatica, facilmente s’incontrava Fellini in compagnia della Masina o di qualche produttore, il luogo era familiare e accogliente, col camino sempre acceso d’inverno; e poi i passatelli in brodo, le squisite salse dei bolliti, la lasagna speciale, delicata e cremosa, la zuppa inglese che pareva fatta in casa...
A tutt’oggi, il ristorante Cesarina non è affatto cambiato: il nome è lo stesso, si mangia sempre bene, l’arredo è immutato, i politici ci vanno ancora, Fellini anche. Ma lei, la Cesarina, l’ispiratrice, la fondatrice, la reginona di via Sicilia, lei non c’è più, da quando, l’anno scorso, ha deciso di vendere ad altri il suo ristorante, nome compreso. E così, la grande signora si è messa a riposo; nei vecchi luoghi torna solo di tanto in tanto, per nostalgia, e tutti quanti le fanno festa, clienti e camerieri.
Fellini sente la sua mancanza, e se ne lamenta. Pure non sa rinunciare al suo ristorante, allo spazio caldo e comodo, al mangiare genuino che gli rammenta la sua Romagna. Per questo continua a esserne un cliente assiduo; e i camerieri, premurosi, conoscono bene ogni suo piccolo vezzo: il tavolo tondo subito sotto la cassa (è quello che preferisce) apparecchiato per lui, i pezzettini di parmigiano fresco da stuzzicare durante le attese, tutto il carrello dei dolci da contemplare a fine pasto (ma poi non assaggerà quasi nulla: l’importante è scuriosare).
Un’intervista sul cibo a Fellini non poteva dunque che avvenire dalla Cesarina. Cosa mangia il Maestro? Poco, e con una certa fretta: una tazza di zuppa di verdura, un’omelette («ma mi raccomando, che sia bella bavosa dentro»), molta frutta alla fine, con una preferenza spiccata per l’uva baresana. «Il fatto è che io mangio come un frate, seguo un menù semplice, ripetitivo. No, non posso darle molta soddisfazione su quest’argomento. E poi i condizionamenti delle diete... Da ragazzo ero magrissimo, e ho nostalgia di quel periodo. Col passare degli anni mi sono appesantito, e sono arrivati gli inevitabili confronti con i medici, con quelle loro dannate bilance che segnano sempre due o tre chili in più del peso reale...».

D. Fellini, dunque, mangia poco. Ma perché sempre così frettolosamente?
Fellini. Perché sono un pasticcione. In realtà mi siedo a tavola con piacere più per l’aspetto conviviale della faccenda che per il cibo in sé. Mi piace l’incontro con un amico, il momento di confidenza, l’avvenimento festoso, la chiacchiera rilassata: la tavola, insomma, come pausa, stacco dal lavoro. Ma in effetti, non credo di gustare granché quello che mangio. Sono impaziente, sono qui e vorrei già essere altrove... Fa parte, credo, di una mia forma temperamentale, che ormai si è completamente sclerotizzata: una forma di fretta, di fuga continua dalle cose; un processo irreversibile di speculazione fantasiosa o fantastica sulla realtà, per cui tutto ciò che mi pare mi trattenga in una dimensione sensoriale subito mi appesantisce, mi sembra da sfuggire, da evitare...

D. Però le piace vedere mangiar gli altri...
Fellini. Già. Ho piacere a vedere mangiare gli amici, ho la mania di riempir loro il piatto con tanti piccoli assaggi di tutte quelle cose che non voglio o non posso mangiare io... Direi che, in generale,
mi piace molto veder mangiare gli akri.

D. E le donne, in particolare?
Fellini. Sì, certo, una bella donna che non ha complessi di linea, e che mangia con appetito, mi ha sempre fatto molta simpatia... Questo nutrirsi gagliardamente mi pare rivelatore di un certo modo positivo di porsi di fronte alla vita. Una spontaneità, un’autenticità senza rigori, senza problemi, l’indifferenza agli attacchi autopunitivi delle diete, tutto questo mi pare un buon segno, mi fa allegria.

D. Allora è vero che le piacciono le donne grasse.
Fellini. Niente affatto. Mi piacciono gli attributi femminili doviziosi, convenientemente sviluppati. Mi piace una donna che rispetti, nel fisico, la tradizione delle grandi Veneri: Rubens, Tiziano. La donna morbida insomma, opulenta, quella che ha il vantaggio di restituire un senso di protezione antica, di nutrimento, di saggezza. Quel tipo di donna ha qualcosa in più: una sua verità non corretta, non trattenuta; un’assenza da privazioni. D’altra parte, sono anche convinto che questa mia predilezione sia una tendenza molto naturale in tutti gli uomini del mondo: la grassezza non c’entra. L’aspetto adiposo non mi piace, non mi interessa.

D. Eppure lei ne fa un uso continuo ed abbondante in tutti i suoi film...
Fellini. Che significa? È come accusare uno scrittore di adoperare spesso un certo aggettivo! Che invece è solo, semplicemente funzionale a un fatto espressivo... I miei gusti personali non c’entrano.

D. Quali sono i suoi piatti preferiti?
Fellini. Non so, mi faccia pensare... I sapori, i gusti cambiano, nelle diverse stagioni della vita. Ricordo che da ragazzino mi piaceva il caffelatte, insieme al pane abbrustolito con sopra la ricotta. E le minestre che faceva mia madre, e le polpette, e il polpettone... Uno nasce coi sapori che sente in famiglia, e crede sia quello il mangiare migliore del mondo. Ricordo la zuppa inglese che faceva mia nonna, non l’ho mai più ritrovata così squisita, con la chiara d’uovo sbattuta e bruciacchiata, e uno spruzzetto di Mistrà...

D. Si è perso molto, a suo parere, il senso del piacere? L’aspetto sensuale, godereccio della vita?
Fellini. Mi pare di sì. Il piacere è qualcosa di estremamente privato, individuale. Essendo andato perso, per ansia, nevrosi, paura dell’isolamento, il piacere di stare con se stessi, tutto quello che riguarda il piacere personale ha perduto d’interesse, di fervore. Ci si è abituati a uno stordimento collettivo, un’ubriacatura contagiosa, un piacere consumato insieme. Una tavolata di cento persone sta forse mangiando? Sta consumando il piacere della tavola? No, si sta solo rumorosamente ingozzando di cose fatte per il gruppo, e quindi indifferenziate, approssimative. Poi questa mania delle diete, questo fatto di considerare il corpo in una forma schematizzata, quest’idealizzazione teorica di un benessere fisiologico stabilito in numeri e cifre... Tutto è stato appiattito, generalizzato secondo modelli astratti. Il che, inevitabilmente, ha portato a un allontanamento dal piacere, inteso in senso individualistico, aristocratico. Si è perso, insomma, un rapporto privato con se stessi e con la vita. Per tornare a consumare un piacere autentico, bisognerebbe innanzi tutto ritrovare un proprio centro, che dagli altri non possa e non debba essere invaso. Mentre invece, incapaci di stare da soli, di continuo ci lasciamo plagiare dal collettivo. E, forse tutto questo è molto grave.

Nota
Volubile in apparenza ma fondamentalmente molto abitudinario, Fellini frequenta da anni gli stessi ristoranti. Al primo posto, naturalmente, c’è la vecchia Cesarina di via Sicilia, con la sua cucina emiliana ricca e gustosa. Poi c’è Checco alla Tredicesima, quando Fellini è in vena di fare una piccola gita in macchina, oppure in estate, quando si trasferisce a Fregene (e Checco è proprio sulla strada del mare, al 13° km dell’Aurelia): specialità di pesce, un salone enorme, dove il fumo si sperde (Fellini odia le sigarette), una gestione familiare simpatica e affettuosa. A pranzo, quando lavora a Cinecittà (ma non solo), c’è un’altra mèta prediletta, a pochi chilometri dagli stabilimenti della via Tuscolana: il Fico Nuovo di Grottaferrata. Il cibo è rustico e appetitoso, il panorama è gradevole, in piena campagna, e soprattutto il proprietario, Claudio, è un omino tutto speciale, buon amico da tempo di Fellini, che lo ha anche utilizzato come attore (era uno dei due sindacalisti di Prova d’orchestra). Si dice che Claudio sia perfino un po’ mago e veggente. Di tanto in tanto, la sera che ha voglia di mangiare della carne come si deve, il regista sceglie Il Toscano di via Germanico, celebre per le sue ineguagliabili bistecche e per il suo Chianti sopraffino. Quando, infine, Fellini è in un periodo di rigoroso igienismo, diventa un assiduo frequentatore del ristorante Vegetariano di via Margutta, proprio sotto casa sua: l’ambiente è giovane, la cucina leggera ma saporita, ilvino è categoricamente abolito, il proprietario (Claudio anche lui) è uno spilungone simpatico, che a tempo perso fa il maestro di yoga. (L.B.)


“La Gola”, ottobre 1982

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