1.9.16

Polemiche. Il piccolo mondo agricolo coltiva miti troppo antichi (Antonio Pascale)

Con cadenza pressoché regolare la Coldiretti organizza manifestazioni a sostegno dell’agricoltura. Sono colorate e allegre. Puoi vederle già da lontano, come delle boe in cielo, grandi palloni gialli, gonfiati a elio che dondolano bonariamente al vento. Gli slogan che animano la protesta in genere si concentrano su alcune caratteristiche della nostra agricoltura. E sono la qualità prima di tutto, e naturalmente la tipicità e la diversità, orografica e climatica. A seconda dell’umore tendo a prendere le suddette manifestazioni o bene o male. A volte penso che aiutino la nostra agricoltura, perché richiamano l’attenzione del cittadino sulle nostre campagne. Altre volte invece il cattivo umore si fa sentire e penso che no, con questo immaginario bucolico non riusciremo mai a rafforzare la nostra agricoltura. Ma i miei umori non fanno conoscenza.
Affrontiamo allora meglio la questione: tutti noi tecnici - e io lo sono, svolgo da 27 anni un ruolo ispettivo al Mipaf - sappiamo la verità: la nostra agricoltura è in difficoltà. E un po’ di numeri fanno capire la portata del problema. Sono dati Istat/Eurostat, si riferiscono al 2015. Un primo dato sembra promettente. È il valore della produzione agricola italiana, passato da 50 miliardi di euro dal 2005 al 57 miliardi del 2015, dunque più 14%. Per un titolista è un invito a nozze, può facilmente scrivere che la nostra agricoltura è in ripresa, poi però bisognerebbe smontare il dato e capire per esempio quali settori hanno contribuito al suddetto miglioramento. Purtroppo sono le attività extra agricole, agriturismi e simili, cose buone certo, ma non legate direttamente alla produzione.

Confronto europeo
Poi c’è una comparazione da fare, è vero che noi siamo cresciuti, ma la Ue nel suo complesso è cresciuta di più, del 22%. Poi passiamo all’occupazione agricola, è in calo da 972.000 mila (2005) a 878.000 (2014). Questo calo, lo sappiamo, è fisiologico è cominciato decenni prima con la rivoluzione verde e con l’industrializzazione. Ci sarebbero tanti fattori da analizzare, ma basta riflettere su un punto. Grazie alla rivoluzione verde siamo usciti dalla miseria - agrofarmaci, concimi, miglioramento genetico, meccanizzazione, irrigazione - la produzione è aumentata, la qualità del cibo anche. Ora con meno terra e meno braccia produciamo di più e meglio. Vuol dire che abbiamo eliminato i costi? No, per niente, nei decenni scorsi abbiamo pagato un certo uso spregiudicato dei diserbanti e degli agrofarmaci. Ci siamo lamentati e l’industria chimica ha provveduto: non c’è confronto tra un agrofarmaco di vecchia generazione e uno moderno. Dobbiamo smettere di lamentarci? Tutt’altro. Oggi il miglioramento genetico e la conoscenza più profonda del dna offrono uno strumento straordinario per rafforzare la pianta, dotarla di resistenze alle malattie e usare meno chimica. Possiamo, per fare un esempio, coltivare la lattuga anche nei nostri orti senza temere la peronospora perché nella piante sono state introdotte varie resistenze al fungo.
Andiamo avanti. Vediamo l’export. Buone notizie, da 4,1 miliardi (2005) a 6,6 miliardi (2015). Tuttavia le importazioni sono aumentate da 9,2 miliardi (2005) a 13,8 miliardi (2015). Quindi saldo commerciale import/export negativo (-7,2 miliardi). I redditi agricoli infine crescono dal 2005 al 2015 del 14%, ma nella media Ue salgono molto di più, del 40%.
L’agricoltura italiana soffre, e possiamo evidenziare tre cause concatenate. La prima è strutturale, riguarda la superficie delle aziende, in gergo: frammentazione delle imprese agricole. Prendiamo due comparti: quello agrumicolo e quello olivicolo, due vanti, due punti di forza. Le imprese agrumicole si attestano intorno a una media di 1,65 ettari di superficie agricola, molto bassa – del decennio 2000/2010 la dimensione è passata da 0,86 a 1,62, ma solo perché si è ridotto il numero complessivo delle aziende. Detta in breve, la maggior parte delle aziende agrumicole non hanno una dimensione economica tale da garantire un reddito sufficiente. La produzione viene infatti soddisfatta da poche aziende medie/grandi (le aziende superiori a 20 ettari costituiscono il 30% della superficie agrumicola italiana).
Quello olivicolo invece? E niente, solita ridottissima dimensione, siamo attorno a 1,78 ettari. Questo dato va ancora scomposto: il 38% delle aziende ha meno di un ettaro (questa classe rappresenta il 14% sul totale coltivato), mentre il 10 % delle aziende ha più di 10 ettari (e rappresenta il 34% della superficie coltivata). Nel mezzo una variegata classe di aziende con pochi ettari. Questa tipologia la potete trovare in quasi tutti i comparti.
Seconda causa: anagrafica. L’età dei coltivatori è alta, la scolarizzazione è bassa. Gli olivicoltori per esempio (ma non solo loro) stanno invecchiando. Il 41% è sopra i 65 anni, e il ricambio generazionale è bassissimo, appena il 3% ha meno di 34 anni. Quindi frammentazione e invecchiamento uguale poca o scarsa propensione all’innovazione. La verità che tanti coltivatori lo sono part time, è più un hobby o una professione?

Il paradosso olio
L’Italia è uno dei principali produttori e anche il principale importatore di olio. Dunque prendiamo dalla Spagna, Grecia, Tunisia, Turchia, Portogallo e Francia. Tutta l’area del Magreb sta imparando a coltivare l’olio, e ormai come qualità si stanno avvicinando molto agli standard spagnoli. Importiamo, tagliamo, esportiamo e siamo anche i primi consumatori d’olio ma non innoviamo, alcuni dicono che la nostra olivicoltura è un museo: qualcosa da guardare.
E qui arriviamo alla terza causa che si lega con le prime due: l’immaginario bucolico, che genera ansia nei confronti dei nuovi metodi di coltivazione. Se parliamo di innovazione dei cellulari siamo tutti contenti. Se parliamo di innovazione in agricoltura sembra un attentato alla tradizione. Pensate quante trattorie della nonna esistono in Italia. E quante poche trattorie dei nipoti, molto passato, poco futuro.
Visto tutto ciò, se proponiamo una coltivazione di olivo super intensiva - metodo che con opportune precauzioni si potrebbe, anzi si dovrebbe sperimentare - difficilmente otterremo credito. Sia nei colorati cortei sia nelle stanze del Palazzo. Già sento i commenti, vuoi mettere le olive nostrane? E quelle di una volta? Eppure, l’obiettivo auspicato è quello di innovare per diversificare, proprio a partire dal prodotto nostrano. Per esempio usando genotipi di nuova costituzione. Del resto, abbiamo germoplasma italiano e vastissimo, e qui non c’entra il campanilismo, è un modo per rispettare la speciale orografia italiana, quindi utilizzeremo e miglioreremo il materiale vegetale nostrano.

Pomodoro industriale
Io lo so c’è ancora qualcuno che rimpiange le conserve fatte in casa. Magari ognuno ha un ricordo particolare di quel periodo, e contro i ricordi si può far poco. Pensate tuttavia a questo dato. Oggi possiamo acquistare un’ottima passata di pomodoro italiano con solo un euro. Possiamo acquistare questa passata perché ci sono ottimi pomodori da industria. Il primo segreto per far un buon pomodoro da industria è l’acqua. Oggi possiamo controllare l’umidità del terreno con dei sensori e quindi stabilire quanta acqua è necessaria alla coltura, e successivamente con l’irrigazione a goccia dare la giusta quantità d’acqua.
Il secondo segreto è raccogliere i pomodori al momento giusto, né troppo verdi, né troppo maturi. Allora vengono coltivati specifici pomodori (frutto del miglioramento genetico) che maturano nello stesso momento: quindi si sceglie insieme ai trasformatori la data di messa a coltura della piantina di pomodoro, e dopo 14/16 settimane inizia la raccolta: meno costi più efficienza, meno pomodori immaturi o troppo maturi. Una volta le fabbriche di trasformazione stavano lontane, quindi si riempivano i camion all’inverosimile e si portavano i pomodori verso le industrie. Oggi campi e fabbriche sono vicini, quindi si spreca meno tempo. Terzo segreto, usare meno calore nella trasformazione, così si risparmia energia e soprattutto non si altera il sapore.
Tutta questa filiera per funzionare richiede innovazione e collaborazione costante tra produttori e trasformatori. Eppure diciamoci la verità chi parlerebbe di questo metodo di produzione come salutare e frutto dell’ingegno umano? L’industria non ci piace, ci spaventa e preferiamo raccontare delle belle e costose conserve di una volta o del contadino artigiano. È un problema di immaginario, e nell’immaginario agricolo non entra la parola innovazione.
Così pochi di noi sanno che esistono 75 mila varietà di pomodori, creati ex novo dall’uomo. Possiamo mangiare datterini e ciliegini e pomodori da insalata e da riso, da aperitivi, e appunto da conserve. Pomodori che crescono tutto l’anno e pomodori che richiedono meno agrofarmaci e meno acqua e durano di più dopo la raccolta. Il problema dell’agricoltura italiana è proprio un certo immobilismo, preferiamo le rendite di posizione, forse siamo convinti d’essere soli al mondo e non soggetti alla concorrenza. O basterebbe cambiare il punto di vista e saperlo raccontare per avere possibilità in più. Siamo passati da Pinocchio, il romanzo della fame, a Masterchef, ora dobbiamo passare a agricoltura 2.0, sostenibile, buona e giusta, e credetemi, a prescindere dai miei umori, l’innovazione è tutto, è un meraviglioso pallone a elio che ondeggia in cielo e ci indica la strada.


Pagina 99, 29 luglio 2016

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