26.9.16

Per la Cina e per l'amore. Lietta Tornabuoni intervista Han Suyn

ROMA — Dice Han Su-yin: «È stupido: ogni tanto, e ogni volta che un leader politico europeo o americano va in visita a Pechino, subito i giornali proclamano: “La Cina apre all’Occidente”. Ridicolo: da duemila anni dura l'andirivieni tra Asia e Europa, c’è una storia comune di culture sovrapposte, intrecciate. Nel quattordicesimo secolo quei bianchi che sarebbero diventati i francesi servivano alla Corte imperiale cinese come gorilla, guardie del corpo. Allora e poi, gli italiani hanno vissuto grandi avventure in Cina come in India. Mi scandalizza che in Italia non si vada oltre Marco Polo, non si celebri a esempio un grande pittore e architetto operante alla Corte cinese come il gesuita Giuseppe Castiglione: anche per questo ho voluto farne un personaggio del mio romanzo».
La scrittrice cinese di madre belga, medico, autrice di romanzi (il più famoso nel mondo resta L’amore è una cosa meravigliosa), di saghe famigliari autobiografiche, di saggi politici o quasi (una biografia di Mao, Il vento nella torre), progressista militante, voce della Cina in Occidente, avrà tra poco settantanni. Vive tra Losanna e Pechino, tra Svizzera e Oriente, insieme con il terzo marito, il colonnello Vincent Ru-thnaswamy, un gigante indiano molto scuro di pelle (gli altri mariti sono stati un ufficiale cinese dello Stato Maggiore di Chiang Kai-Shek negli Anni Trenta-Quaranta e nei Cinquanta un inglese che adesso fa l’editore a Hong Kong).
Viaggia per il mondo facendo conferenze, e quella che oggi tiene a Roma è intitolata «Cina, dieci anni dopo». È energica, brillante, instancabilmente appassionata, molto loquace: e elegantissima. Non ha perduto fiducia nella missione che si è assegnata: «Da cinquant’anni, dal mio primo romanzo, cerco di contribuire alla reciproca conoscenza di culture diverse, di chiarire scrivendo e parlando quanto popoli che sembrano differenti siano invece strettamente legati da storia e esperienze comuni».
Continua a credere nella funzione che in questo senso può avere anche la narrativa popolare. Se nei suoi romanzi precedenti i personaggi si muovevano in Cina, a Hong Kong, nel Nepal, in Malesia o in India, l’ultimo, La incantatrice, appena uscito in Italia pubblicato da Sperling & Kupfer, è ambientato nella Svizzera, nella Cina e nella Thailandia del Settecento.
Fantastico. Nella storia avventurosa di un fratello e una sorella gemelli d’origine celta, uniti da misteriose telepatie e commistioni gemellari ma anche da un’irresistibile passione amorosa mai consumata, Han Suyin mescola tutto: esotismo, didattica, magia e stregoneria, condanna dei pregiudizi, potenza dell’irrazionale, lussi e crudeltà degli imperi asiatici, gesuiti, contenuti femministi. E Voltaire («simile a un coloratissimo pappagallo, con un turbante di seta multicolore»), la Concubina Luminosa e la Concubina Fragrante, i mercanti di Batavia, le virtù salvifiche delle erbe medicamentose, gli stupefacenti automi settecenteschi, i sultani impazziti, le gemme strepitose, la terra dei Thai e Ayuthia, la Città del Paradiso detta appunto La Incantatrice, sommersa da torrenti di sangue, cancellata...
«Era la Venezia d’Asia e tutti l'hanno dimenticata», spiega Han Suyin. Il mix fascinoso del romanzo l’ha voluto: «Perché ero desolata dal fatto che la gente è oggi così prosaica, terra-terra, priva di vita interiore: rinnega e mutila costantemente le proprie eredità culturali, i diversi strati di conoscenze e emozioni componenti il cervello umano». I prodigiosi automi antropomorfi, dice, «davvero, storicamente, sedussero l’Asia nel Settecento, ma come giocattoli: non si capì che erano la rivoluzione industriale». L’incesto? «Esiste, è sempre esistito. Ne La incantatrice l'amore tra i due gemelli non diventa possesso fisico, ma nella realtà delle famiglie chi abusa delle bambine se non il padre, il fratello, lo zio? Un crimine? Gli antichi faraoni egiziani potevano sposare soltanto le proprie sorelle. Non siamo ipocriti».
La sua eroina Bea è una donna intelligente, potente, libera, ma lei non è affatto femminista: «Il movimento femminista occidentale ha mescolato liberazione femminile e liberazione sessuale. E’ un errore. Sono problemi distinti, e trovo stupido provocare ostilità tra uomini e donne, colpevolizzare uomini che sono a loro volta vittime. Il movimento femminile in Cina si è battuto per l’emancipazione delle donne come degli uomini: sono d’accordo».
Naturalmente. Sono in molti a dire che la verità ufficiale della Cina è sempre stata la verità di Han Suyin, sempre governativa da quando poté rientrare nel suo Paese, sempre pronta a esaltare Mao e poi a criticarlo, a contraddirsi senza render conto delle contraddizioni. Lei si difende con empito: «Non sono una donna politica, non ho mai scritto di politica. Come un giornalista, ho riferito ì fatti, le correnti di pensiero, le parole della Cina, come via via si presentavano».
Certo, riconosce, ha accettato le diverse, mutevoli verità della Cina ufficiale: «Io partecipavo a quegli eventi come tutti gli altri cinesi; non potevo vedere più chiaro degli altri né saperne di più». Ha sbagliato? «Molti sinologi hanno sbagliato quanto me, e si sono corretti nelle seconde edizioni dei loro libri. Io, no. Resti pure la testimonianza dei miei errori: ho sbagliato per idealismo, non per cinismo».
Negli anni duri dell’isolamento e dell’embargo americano, dice: «La Cina aveva bisogno d’una voce anche sottile come la mia che parlasse a suo favore. Mentre tutti gli erano contro, sono stata a fianco del mio Paese, e allora non era facile né comodo: volevo farlo conoscere, spiegarlo, dirne i perché». È quanto fa con immutato entusiasmo e volontà anche adesso, lodando: «La Cina sta facendo ora un 'esperienza straordinaria, molto coraggiosa: deve riscrivere certi aspetti dell’ideologia marxista alla luce della rivoluzione tecnologica. Deng ha riconosciuto gli errori compiuti: e devo ancora trovare un leader occidentale che abbia fatto altrettanto. Lo ammiro per questo. Rispetto Mao, aveva cercato di introdurre maggiore critica ma non c’era riuscito; poi è diventato vecchio e pure lui intollerante della critica; è stato tradito dal proprio cervello, càpita».
Però attenzione, ammonisce Han Suyin con nostalgica serietà: «È molto presto per giudicare la rivoluzione culturale cinese. Un grande tornado emotivo e rivoluzionario distrugge molto: ma è portatore di molta novità». E attenzione, riammonisce con improvvisa durezza: «E’ stupido dire che i cinesi si sono convertiti al capitalismo. Credere che i cinesi non siano intelligenti è molto, molto stupido».

“la Stampa”, 13 novembre 1986

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