Recensendo il 19-08-2006 su “Tuttolibri” i due volumi dei Meridiani dedicati allo scrittore americano, Ruggero Bianchi fa il punto sulla “questione Chandler” e ottimamente sintetizza il punto di vista su lingua e invenzione del creatore di Marlowe. (S.L.L.)
Fa un certo effetto veder affiancare a classici canonici come Joyce e Melville, Yeats e Pound, Virginia Woolf e Emily Dickinson, scrittori a lungo ritenuti popular se non proprio pulp, tradizionalmente relegati dalle vecchie storie letterarie nel ghetto dei sottogeneri. Autori come Dashiell Hammett e Raymond Chandler, con le loro action stories giocate sull'indagine sul campo e non sull'investigazione a tavolino, parevano un tempo sfigurare persino rispetto ai più formali e compassati colleghi britannici, si trattasse di Arthur Conan Doyle o di Agatha Christie. Il fatto stesso che la loro scrittura s'ispirasse al linguaggio secco, incisivo e veloce delle pagine di cronaca e mirasse a una sorta di giornalistico verismo non giocava a loro favore, nonostante il modello di Hemingway. L'operazione di recupero è tuttavia legittima, come conferma con un'analisi persuasiva e una massiccia e minuziosa documentazione Stefano Tani nell'introduzione, le note e i commenti ai due volumi dei Romanzi e racconti di Raymond Chandler raccolti dai Meridiani Mondadori, il primo dei quali, uscito lo scorso anno, viene adesso ristampato in contemporanea con l'uscita del secondo, che raccoglie materiali scritti tra il 1943 e il 1959. Quest'ultimo, accanto alle nuove traduzioni dei romanzi, ben condotte da Laura Grimaldi, include la sceneggiatura di La dalia azzurra (alcuni racconti e frammenti), una serie di saggi e (nella versione dello stesso Tani) un'utile e convincente scelta di lettere, che il narratore americano sfornava ai tempi con ritmi ossessivi, degni di quelli dei moderni adoratori degli sms. Le «considerazioni (molto brevi, per carità) sullo stile inglese e americano», ad esempio, esasperano con humour sottile e acuta penetrazione le differenze di fondo tra Stati Uniti e Gran Bretagna a livello di atteggiamento mentale, tradizioni culturali e stratificazione sociale, per dedurne l'inevitabilita' di forme di linguaggio e di racconto radicalmente divaricanti. Per Chandler, l'inglese d'America non è una lingua «classista» come quello d'oltre Manica. E' una «lingua di massa» , nel senso in cui il baseball è uno sport di massa. Non ha consapevolezza nè arroganza culturale o colta, ma è istintiva, naturale e financo naif, aperta ai neologismi, ai barbarismi e ai cliché, paciosamente cosciente e quasi compiaciuta di non sapere «usare la grammatica come si deve». Nel bene e nel male gli scrittori americani conservano pur sempre lo spirito dei loro Padri Pionieri e restano quindi alla fin fine «bifolchi». Ma è meglio la loro parlata contadina dell'idioma «alessandrino» degli inglesi, i cui scrittori si sentono invece in primo luogo «gentiluomini». Meglio la volgata delle strade, il gergo di piedipiatti e delinquenti, che la retorica fasulla di una nazione un po' snob che vorrebbe esprimersi alla Shakespeare anche tra i banchi delle scuole e agli sportelli delle banche. Su un diverso versante, la rilettura di saggi come La semplice arte del delitto con relativa «introduzione» o Dodici note sulla mystery story ha molto da insegnare ai mille mestieranti che sfornano oggi a raffica thriller pretenziosi e ai loro troppi lettori di bocca buona. Per l'autore di Il grande sonno, infatti, non soltanto lo scrivere bensì pure il leggere è un'arte che occorre apprendere, cui bisogna educarsi ed educare, studiando o ristudiando ad esempio Fielding, Smollett e magari Jane Austen. Un percorso d'obbligo anche nel poliziesco, se non si vuole fare la fine di Conan Doyle o del Poe di La lettera rubata o della loro epigona Agatha Christie, autentici «primitivi nell'arte di scrivere gialli». In una buona detective story le motivazioni devono essere credibili sia in apertura sia nell'epilogo e le tecniche d'indagine impeccabili; personaggi ambienti e atmosfere devono sapere di autentico e la soluzione dev'essere persuasiva al punto da apparire inevitabile. Nè l'autore deve mischiare arbitrariamente le carte, immettendo elementi non funzionali all'intreccio o concedendosi divagazioni e contaminazioni in campi non pertinenti: horror e noir sono spesso fattori di disturbo, così come le psicopatologie, le nevrosi e in genere i casi clinici. Creano un alone nebbioso che non produce atmosfera ma opacità, una dispersione confusa che non s'addice al genere. E per analoghi motivi conviene lasciar fuori gli amori più o meno impetuosi e le passioni più o meno travolgenti. Il rosa non si sposa col giallo, giacché rischia di sviare il lettore, deviandolo illegittimamente su falsi binari. Al criminale è concesso di depistare l'investigatore, ma lo scrittore ha verso il lettore l'obbligo dell'onestà. Anche per questo Chandler mostra a volte (si veda Scrittori a Hollywood) fastidio e insofferenza per i registi inclini a intervenire sul linguaggio, i toni e i climi dei suoi romanzi e delle sue sceneggiature. Una scrittura come la sua, nata da regole assunte come necessarie, non tollera manipolazioni dettate da logiche di botteghino. Una ragione in più per prenderla finalmente e definitivamente sul serio.
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