Ho visitato la mostra fotografica La memoria nei cassetti. Perugia 1944 – 1970, che rimarrà al Palazzo della Penna fino ai primi di marzo. Ne valeva la pena: l’ho trovata ricca e interessante, benché sollecitatrice di amari pensamenti.
L’esposizione (e il libro che ne è scaturito) si propone come completamento di un trittico sulla città capoluogo dell’Umbria, di cui sono parte due precedenti mostre: quella relativa all’inizio del secolo costruita sui materiali dell’archivio Tilli-Giugliarelli e l’altra sull’ultimo trentennio basata sugli scatti dei foto reporter.
Stavolta le immagini provengono da archivi privati, da cassetti e album di cittadine e cittadini che, secondo quanto riferisce il curatore, Alberto Mori, hanno prestato materiali ritenuti interessanti, seguendo ciascuna e ciascuno una propria, personale gerarchia d’importanza. Non sono del tutto convinto che la mostra che ne risulta sia davvero la semplice proiezione di questo “multiverso” di interessi: la selezione e la collocazione comporta inevitabilmente un’interpretazione dei documenti.
I documenti attengono prevalentemente alla vita privata: matrimonio e famiglia, lavoro e riposo, scuola e ufficio; e l’attenzione è più alle persone che ai luoghi, anche se guardandole è possibile leggere i mutamenti della città e della vita collettiva seguendo molti possibili percorsi (i trasporti, l’abbigliamento, il cibo).
Quello che un po’ sorprende è la marginalità della “politica” in un paese (l’Italia) e in un tempo (il secondo dopoguerra) che gli storici raccontano come di forte politicizzazione: il paese e il tempo dei partiti di massa, dei grandi comizi, degli scontri duri e perfino sanguinosi. Il racconto fotografico inizia e si chiude con due eventi emblematici, l’arrivo in città degli Alleati (e dei partigiani) e la seduta inaugurale del Consiglio regionale nella Regione appena istituita, ma dentro questa cornice ci sono scarse tracce dei conflitti politici e sociali (nessuna immagine che rievochi anche vagamente il Sessantotto, tra l’altro). Ricordo alcune scritture propagandistiche di tempi diversi, un prete che officia non so quale funzione sotto un grande striscione inneggiante al voto comunista e soprattutto due testimonianze coeve sullo scontro politico, sociale e culturale nel 1950: da una parte Di Vittorio che parla da Palazzo dei Priori a una folla che non appare molto numerosa (c’è, più avanti, a correzione, un affollato Primo Maggio del ‘61), dall’altra una numerosa e foltissima delegazione perugina a Roma per l’Anno Santo con in testa preti, monache e frati d’ogni ordine e grado.
E tuttavia che quella degli anni Cinquanta fosse un’Italia polarizzata e divisa si percepisce con evidenza nella mostra. Le immagini delle feste e dei balli dei ceti popolari e quelle delle feste ai Filedoni e le foto di gruppo nei luoghi di lavoro danno l’idea di un mondo dove i ricchi e i poveri non si confondono e dove non c’è l’imprenditore, ma il “padrone”, paternalista quanto si vuole, ma padrone. E le immagini delle tabacchine o delle operaie Perugina, a guardarle bene, segnalano anche una società in cui il maschio esprime ancora una capacità di sottomissione, un abuso di potere.
Eppure, nonostante questi elementi di oppressione e di conflitto, la mostra trasmette l’idea di una società dove nessuno è solo neppure quando è solo, una realtà in cui la famiglia, la chiesa, il vicinato, il gruppo di lavoro e - con molta più forza di adesso - la “classe” aggregano e danno valore politico anche al privato. A guardare le immagini dell’oggi, soprattutto quelle relative al mondo popolare (il mondo dei “più”, secondo l’etimologia) non avverti più nei gesti e negli occhi la socialità, e spesso non avverti la speranza. Hai l’impressione che una macina abbia frammentato tutto e tutti, distruggendo ogni residuo di socialità. Anche quando non c’è l'atomizzante abuso del telefonino a segnalarcelo, le foto di massa impressionano tante piccole solitudini.
“micropolis”, dicembre 2011
Nessun commento:
Posta un commento