Gyorgy Lukàcs
Su “La poesia e lo spirito” del 21 dicembre 2011 ho trovato una recensione, di Giuseppe Panella, del libro di Emiliano Alessandroni, La rivoluzione estetica di Antonio Gramsci e György Lukács, edito da Il Prato di Padova in questo 2011con prefazione di Pietro Cataldi. Mi sembra che il libro e il recensore pongano questioni di grande rilievo culturale e politico. (S.L.L.)
«Questo studio affronta in prevalenza questioni che sono state attuali negli anni Venti e Trenta in Europa, e poi di nuovo fra gli anni Cinquanta e i Sessanta; e che oggi sono tramontate dal dibattito. Resuscitarle implica il rischio di apparire anacronistici e sorpassati. In questa percezione si agita appunto il concetto di “egemonia”. Il velo di polvere caduto sulle grandi questioni teoriche qui considerate è infatti parte di una generale sconfitta delle prospettive di cambiamento presenti negli attori che le hanno animate. Questo studio ha il merito di rifiutare la sconfitta come dato irreversibile e di non scendere, d’altra parte, sul terreno dell’archeologia filologica. Tratta cose morte come se fossero vive. Se un solo giovane, leggendo, sarà interessato e coinvolto, avrà avuto ragione» (pp. 10-11) - scrive Cataldi in conclusione alla sua Prefazione al libro di Alessandroni.
Ha ragione, ovviamente. Né Gramsci né tanto più Lukács sono autori considerati à la page, semmai scomodi relitti di un tempo che fu la cui opera riposa bene tra gli scaffali delle biblioteche dove nessuno va a turbarne il sonno polveroso.
Alessandroni, invece, crede nel loro valore euristico e nella loro ri-utilizzazione nel presente come strumenti di interpretazione militante, come armi di lotta contro l’assalto di un tempo vile e decadente. Perché questo avvenga, tuttavia, bisogna leggerli e interpretarli ancora una volta per verificare se sono ancora utilizzabili per questa stagione. L’autore del libro ne è convinto soprattutto perché esordisce ponendosi una domanda che dall’epoca della maggior fortuna dell’engagement filosofico-estetica, quella legata al nome di Sartre, non viene ripetuta tanto frequentemente: che cos’è la letteratura? (era, infatti, questo il titolo di un celebre saggio sartriano del 1947). A che cosa serve? È solo un’operazione di carattere formale e individuale o vale qualcosa in più per il suo carattere sociale e, perché no?, per il suo contenuto? Ha ancora carattere conoscitivo (come si sosteneva una volta)? “Tante domande, tante risposte” – avrebbe detto Brecht.
Alessandroni, dunque, si cimenta fin da subito con il nocciolo della questione.
La letteratura è attività umana non disincarnata e non soltanto spirituale – la sua natura è legata alla sua capacità di mutare in maniera conflittuale interagendo con le contraddizioni della società in cui viene prodotta (Gramsci) e “rispecchiandone” la realtà in maniera tale da costituirne una delle forme di coscienza interpretativa (Lukács).
Ma il reale che la letteratura “rispecchia” non è mai visto da quest’ultima nella sua integrità o purezza né risulta libero da condizionamenti di tipo ideologico profondi: nella riflessione dei due pensatori marxisti risulta, di conseguenza, centrale la nozione di falsa coscienza. Egemonia e critica della falsa coscienza vengono considerati percorsi paralleli da Alessandroni (a questa dimensione di lotta per la trasformazione sociale del mondo gli sembra importante aggiungere anche l’esperienza di Carlo Michelstaedter nel suo La persuasione e la rettorica, anche se in misura meno “carismatica” di quanto possa avvenire nei due pensatori marxisti cui è dedicato il suo saggio): «Lotta per l’egemonia significa qui lotta per l’acquisizione alla propria parte della barricata di quanti più intellettuali tradizionali sia possibile o per l’esercitazione su di essi di un maggior influsso rispetto a quello esercitato dagli intellettuali organici del gruppo sociale avverso, pur mantenendone intatta la natura di intellettuali tradizionali. La battaglia contro la falsa coscienza promossa da Lukács s’inserisce anch’essa in tale prospettiva. Lotta contro la falsa coscienza significa lotta per l’assimilazione degli intellettuali tradizionali, per la loro “organicizzazione”, lotta in favore della comprensione del proprio engagement oggettivo» (p. 47).
Dunque, la lotta politica nel campo delle ideologie ha il compito di sgombrare il campo dalla falsa comprensione delle contraddizioni sociali esistenti nel corso della lotta di classe. Ma cosa rappresenta, tuttavia, questo progetto di intervento sulla realtà in maniera concreta dal punto di vista dell’analisi della letteratura come componente fondamentale dell’immaginario sociale collettivo?
Per Alessandroni si tratta di superare l’elemento mistificante presente nella letteratura considerata come pura forma e individuarne il valore di conoscenza che contiene. Da qui discendono tutta una serie di esempi (le”rose” di Saba, il “pessimismo” di Verga, il “naturalismo deterministico” di Zola ecc.) che hanno il compito di verificare la “mistificazione estetica” presente in opere di grande importanza letteraria che pure si pongono l’obiettivo di “coprire” le contraddizioni sociali non enucleandole né evidenziandole ma soltanto trasformandole in materiale artistico coerente al progetto di chi le descrive. Utilizzando una serie di saggi critici sulla letteratura di Lukács e incrociandoli con le letture che Romano Luperini ha fatto di Verga prima e di Montale poi, Alessandroni si colloca con una certa sicurezza e molta passione argomentativa al centro della problematica che intende affrontare. Il critico letterario che intenda essere autenticamente tale non può considerarsi separato e distaccato dalla natura apparentemente separata della materia che tratta e considerarla dall’alto della propria purezza di giudice non schierato ma assumere una posizione dialettica che gli permetta di valutarne la verità dal punto di vista sociale e l’impatto storico. Da qui scaturisce la dura presa di posizione dell’autore contro la critica stilistica (di cui Leo Spitzer viene individuato come il capofila più significativo e originale) utilizzando una serie di notazioni polemiche effettuate da Cesare Cases contra Spitzer stesso e pro Lukács. Al posto della lettura in profondità del testo letterario tipica delle analisi di tipo stilistico si insiste sulla necessità della estensione di essa alla dimensione storico-generale in cui l’opera d’arte è stata, in effetti, realizzata:
«Il critico dialettico deve pertanto saper riconoscere la propria attività quale elemento necessario collocato entro una già esistente lotta per l’egemonia, superare ogni forma di apoliticismo primitivo ed elementare da – con linguaggio hegeliano – anima bella; comprendere come la propria critica costituisca automaticamente una lotta per l’affermazione del proprio tipo di esegesi, percepire questa come parte di una più ampia battaglia culturale, per il modo di pensare e di fare, per una nuova forma di vivere, nuove strutture mentali, nuovi rapporti sociali ed intersoggettivi; non smarrire mai il rapporto tra il proprio ambito specialistico e la totalità e, come che sia, possedere la più piena consapevolezza del fatto che tutto ciò che non può non significare anche un nuovo tipo di letteratura» (pp. 162-163).
Che cosa comporta, allora, la realizzazione di questo progetto? Che cosa significa la messa in atto di questa richiesta insieme politica e culturale? L’approdo auspicato dovrebbe essere che si attui una vera e propria “rivoluzione estetica” come quella proposta e in parte realizzata da Gramsci e Lukács. Alessandroni, di conseguenza, vorrebbe che la critica letteraria e la valutazione estetica delle opere d’arte cambiasse radicalmente volto attenendosi a cinque condizioni di funzionamento deducibili dall’insegnamento dei due maestri dai quali ha tratto ispirazione e conforto teorico. La prima è “la novità della prospettiva” utilizzata che vorrebbe provarsi a colmare il divario tra vita quotidiana e arte superando con nettezza la concezione dell’attività artistica come turris eburnea.
La seconda è una nuova considerazione del ruolo degli intellettuali evitando la loro iscrizione nel listino dei “servi” (la definizione di “intellettuale-servo” è di Michelstaedter) e propiziando la loro oggettiva collocazione di classe in senso progressivo nel tentativo di una trasformazione radicale della società. Su questo punto, Alessandroni ha pagine assai efficaci nella descrizione della polemica che contrappose Elio Vittorini e Togliatti all’epoca della stagione del “Politecnico” servendosi in modo significativo anche delle pagine che Franco Fortini dedicò a questo momento cruciale della storia culturale italiana.
La terza condizione è la fine della mistificazione che risulta connessa all’attività artistica e della congiunzione Verità-Bellezza come sua classica parola d’ordine d’avanguardia. La sconfitta dell’individualismo borghese passa anche attraverso il superamento dell’isolamento dell’artista. Le parole d’ordine estetico-filosofiche di “totalità” e di “tipico” largamente utilizzate nelle opere del Lukács della fase hegelomarxista.
La quarta scelta è quella a favore del critico militante che non si accontenta della filologia accademica ma cerca di portare nel fuoco della lotta e della controversia un sapere non astratto ma legato alle contingenze concrete della storicità in atto.
La quinta necessità prospettata da Alessandroni, infine, riguarda l’allargamento della prospettiva di analisi critica e la fine della dimensione finora esclusivamente occidentale e europeocentrica di essa. L’interesse dimostrato per i Postcolonial Studies ne è un aspetto significativo e non è un caso che uno degli autori di riferimento utilizzati da Edward Said per i suoi studi sull’Orientalismo sia stato proprio Gramsci. In conclusione: questo è un libro di frontiera.
Saldamente radicata in una tradizione di pensiero come quello marxista che ha certamente conosciuto giorni più felici ma che non ha mai cessato di operare il suo ruolo nella cultura progressista, la ricerca di Alessandroni si sporge, tuttavia, come un ponte teso verso una sponda nuova e finora relegata quasi esclusivamente nell’ambito degli studi specialistici di settore come i Cultural Studies e la ricostruzione del rapporto tra le culture autoctone e le forme di colonialismo ancora imperanti che le si contrappongono.
«A fronte di ciò, il ritorno a Lukács e a Gramsci può risultare fertile e non dogmatico e costituire la sesta direzione della loro rivoluzione estetica» (p. 201).
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