16.12.11

Orrori giudiziari. Il processo Verlaine - Rimbaud (di Giuseppe Marcenaro)

Il 12 agosto 2006 la rubrica di “Tuttolibri” de “La Stampa”, Carte Segrete, conteneva una ricognizione sul dossier del processo a carico di Paul Verlaine per il ferimento dell’amico Arthur Rimbaud con un colpo di pistola nel 1873. Verlaine aveva al tempo 29 anni e Rimbaud 19. Ottusità burocratica e incultura convergevano nel far vedere nel primo il pederasta corruttore e nel più giovane una vittima doppiamente vittima, della violenza sessuale e della violenza intimidatoria e punitiva con l’arma da fuoco. Giuseppe Marcenaro, curatore della pagina, attraverso le carte processuali, solo da qualche decennio disponibili agli studiosi e in parte ancora inedite, ricostruisce la vicenda usando gli atti di polizia, le lettere tra i due poeti, le testimonianze al processo fino alla relazione sulla visita medica cui Verlaine fu sottoposto in carcere. La lettura del testo (di cui “posto” qui un ampio stralcio) aggiunge qualcosa alla conoscenza del complesso rapporto tra i due poeti, ma soprattutto mostra in azione un potere, quello poliziesco e giudiziario, in cui l’ignoranza alimenta la brutalità e ne è a sua volta alimentata.
Il conservatorismo benpensante magistratuale durò a lungo in Belgio. Lo stesso Marcenaro, che ricostruisce la vicenda del voluminoso fascicolo processuale, racconta come, ancora nel 1910, alla richiesta di un avvocato appassionato di poesia di consultare il brogliaccio al fine di «une étude d'histoire littéraire», un procuratore generale della corte d'appello di Bruxelles rispondesse dogmatico: «Nel dossier d'istruzione, dal punto di vista letterario, non vi sono che dei dettagli e dei fatti che non possono essere rivelati». Nel maggio 1968 Verlaine e Rimbaud erano ormai giudicati poeti grandissimi, ma un altro procuratore generale della corte d'appello di Bruxelles alla richiesta di visionare il dossier rispondeva no in gretto stile burocratico:«A norma dell'articolo 125 del decreto reale del 28 dicembre 1950, che determina il regolamento generale nelle cause di giustizia in materia repressiva, ritengo sia impossibile accordare l'autorizzazione a esaminare il dossier Verlaine-Rimbaud». Forse non mirava solo a coprire la storia di passione omossessuale tra i poeti, ma anche i vergognosi comportamenti della casta giudiziaria. Aggiungo: quegli orrori possono tornare. Non solo in Belgio.  (S.L.L.)   
Verlaine e Rimbaud in un quadro di Henri Fantin-Latour
Auguste Joseph Michel, di anni 38, agente del 2° distretto di polizia di Bruxelles, quando il 10 luglio 1873, verso le otto di sera, portò davanti al commissario aggiunto Joseph Delhalle un esagitato che protestava in maniera sconclusionata la propria innocenza, mai avrebbe immaginato, sia pur di sguincio, di «passare alla storia», se non altro in un verbale. L'agente Michel aveva arrestato un certo Verlaine Paul, di anni 29, professione «dichiarata» homme de lettres. In fibrillazione isterica, il tipo fermato aveva tirato una pistolettata a un suo amico: Rimbaud Arthur, di anni 19, professione «dichiarata» homme de lettres. Certo. Storia conosciuta.
Meno noto, invece, il dossier processuale dell'affaire, gonfio di 90 documenti con annessi e connessi, compresa una bella serie di letterine compromettenti, trovate dalla polizia nelle tasche del feritore e in quelle della vittima. A nessuno salterebbe in mente che la trés célèbre coppia avesse il culto dell'archivio. Anche soltanto scarabocchiato, non buttarono mai un foglio che li riguardasse, comprese lettere al calor bianco, conservate gelosamente durante i loro vagabondaggi da snobissimi clochard.
Le carte sequestrate dalla polizia belga, inserite nel dossier come prove a carico, rivelando la natura della loro amicizia, contribuirono, più del colpo di pistola, alla condanna di Verlaine. E, sorte cinica, il fatto avvenne a Bruxelles, una città che per cupezza e somma ottusità dei suoi abitanti Baudelaire aveva definito «il pianeta delle scimmie».
Al pedante commissario Delhalle ci vollero ben cinque pagine di relazione da inviare al giudice per arrivare a un punto. Che poi era una domanda. E cioè per quale ragione lo strano tipo rispondente al nome di Verlaine, che gli stava innanzi impalato in una catalessi istupidita, avesse sparato. D'altra parte, esaminati nell'aspetto, alla polizia, e poi ai giudici - uno imputato e l'altro parte offesa - i due dovevano apparire come vagabondi e perdigiorno avvinazzati, viste anche le loro sconclusionate testimonianze dove cambiavano continuamente versione. Venivano da Londra. Risiedevano a Parigi. Il più giovane - la vittima - andava avanti e indietro dalle Ardenne. Condividevano curiosamente i domicili. Il più anziano - lo sparatore - aveva una moglie che, nel farfugliamento al commissariato, angelicava come madre di un suo figlio sulla cui sorte gemeva. In breve una sceneggiata. Con la madre di Verlaine, presente a tutta la vicenda, a difendere il figliolo e ad accusare il signor Rimbaud di essere un sonoro maleducato.
C'e' da credere che Decheé Elisa, veuve Verlaine, di anni 64, senza professione, tentasse di negare la sospettata intesa tra i due, dichiarando di non vedere nulla di compromettente nella loro amicizia, anche se era stata proprio lei a tenere bordone alla coppia. Un po' per liberalità di idee; ma soprattutto in odio alla nuora Mathilde Mauté in Verlaine la quale, infuriata come una erinni, stava intanto piombando a Bruxelles accompagnata da un avvocato per avanzare istanza di divorzio dal dissoluto marito.
La «storia», iniziata da tempo, aveva avuto il suo acme a Londra dove Paul e Arthur si erano rifugiati dopo la fuga da Parigi. Euforici della fuligginosa città, della gran biblioteca del British Museum, della vita libera e condivisa - finalmente non avrebbero più dovuto nascondersi e giustificare i loro comportamenti - si scontrarono però con le necessità materiali. In un'inserzione sul “Times” si erano offerti, senza esito, come: «Due gentiluomini impartiscono lezioni di francese». La mancanza di denaro é sempre un pessimo affare. Mina anche le più intense passioni. Paul e Arthur non dovevano essere tanto per «due cuori e una capanna». Iniziarono le baruffe: Verlaine permalosissimo, sbeffeggiato dal suo compagno in mezzo alla gente; Rimbaud stufo raso di mangiare soltanto aringhe affumicate. Bastò poco più di un mese perché «il nido», la squallida spelonca di Great College Street che condividevano giorno e notte, dopo una iniziale vitalistica esaltazione, si trasformasse in perversa gabbia.
Litigavano come sguattere ebbre, rinfacciandosi tutte le miserie del mondo. Verlaine decise di andarsene. Prese il battello per riguadagnare la strada di Parigi. Sbarcato ad Anversa si fermò a Bruxelles. Aveva inviato a Rimbaud, rimasto nel livido alloggio, una lettera zeppa di recrimini, ricevendone un'altra di amorosi rimorsi per quanto era successo. Scriveva Verlaine: «Tengo anche a confermarti che se fra tre giorni da oggi non sono con mia moglie in condizioni perfette, mi tiro un colpo... Il mio ultimo pensiero, amico mio, sarà per te, per te che mi chiamavi dal molo e io non ho voluto tornare perché era necessario che schiattassi. Finalmente! Vuoi che ti baci crepando? Non ci vedremo più in ogni caso. Se mia moglie viene avrai il mio indirizzo, e spero che mi scriverai a Bruxelles, fermo posta - a mio nome».
Come un gatto che fa le fusa, Rimbaud rispondeva l'indomani: «Ritorna, ritorna, caro amico, unico amico, ritorna. Ti giuro che starò buono... Sono due giorni che non smetto di piangere». Per proseguire implorando e concludere con «tuo per tutta la vita». Insistendo ancora, in un'altra lettera, il giorno dopo, «ritorna... è che ti amo tanto, se non vuoi ritornare che io ti raggiunga... La sola parola vera è: ritorna, voglio stare con te, ti amo. Se ascolti questo, mostrerai uno spirito sincero... Ma io ti amo, ti bacio e ci rivedremo».
Agli occhi della giustizia belga, queste lettere diventarono gli autentici capi d'accusa di Verlaine… Esplorate dunque le lettere, con l'ombra della moglie di Verlaine sullo sfondo a ingarbugliare ancor più l'affaire, a Théodore Serstevens, Giudice Istruttore del Real Tribunale della capitale dei belgi, apparve l'insanità di quell'amicizia, negata peraltro dai due fino all'ultimo sangue: «Siamo stati anche accusati di rapporti immorali, ma non voglio darmi la pena di smentire una simile calunnia», fu l'indignata e principesca dichiarazione di Rimbaud durante gli interrogatori. Il giudice Serstevens meditava sulle prove cartacee distese sul suo tavolo nero, nella cupa stanza al terzo piano dell'invitto Palazzo di giustizia, stile assiro-babilonese, dominante sulla rue de la Regence. L'infame sospetto gli inquinava rigidi principi. Ciò che leggeva era più illecito di un colpo di pistola. La parola proibita balenava: pederastia. L'onorato giudice, cavaliere della corona, non era tuttavia al corrente delle oscillazioni del linguaggio. La definizione dell'immondo vizio gli era rimasta dai tempi dei severi studi. Pederastia, una devianza insopportabile. Ignorava le proposte della psicologia tedesca che, proprio in quegli anni, aveva coniato una parola nuova: omosessualità… Aveva letto e riletto le lettere sequestrate da cui veniva fuori un forte e dilaniato sentimento. Un tipo come lui, acquattato dietro ai codici, non avrebbe mai potuto capire. E non comprese neppure dopo la testimonianza di Rimbaud che, pur risentito nei confronti di Verlaine, continuava a sostenere quanto l'amico, il giorno del ferimento, fosse «in uno stato di esaltazione eccessiva. Insisteva molto con me perché restassi con lui; ora era disperato, ora furioso. Non c'era alcuna logica nelle sue idee. Mercoledì sera bevve oltre misura e si ubriacò. Giovedì mattina uscì alle sei; rientrò dopo mezzogiorno; era di nuovo in stato di ubriachezza, mi mostrò una pistola che aveva comperato, e quando gli chiesi cosa intendesse fare, rispose scherzando: ''E' per te, per me, per tutti''. Era molto sovreccitato, mentre eravamo insieme nella nostra camera all'Hotel Coutrai, in rue de Brasseur 1, a Bruxelles. Scese ancora più volte per bere liquori; voleva sempre impedirmi di mettere in atto il mio progetto di tornare a Parigi. Restai irremovibile. Allora, a un certo punto, chiuse a chiave la porta che dava sul pianerottolo e si sedette su una sedia contro la porta. Io ero in piedi, addossato al muro di fronte. Mi disse allora: ''Eccoti questo, visto che parti!'' o qualcosa del genere. Puntò la pistola su di me e lasciò partire un colpo che mi raggiunse al polso sinistro. Il primo colpo fu quasi istantaneamente seguito da un secondo. Questa volta l'arma non era più puntata su di me, ma abbassata verso il pavimento».
Qualche giorno dopo, rendendosi conto che per Verlaine le cose si mettevano male, Rimbaud, con una dichiarazione manoscritta, «pour rendre hommage à la verité», cambiò versione dei fatti: «Monsieur Verlaine era in un tale stato di ubriachezza che non aveva coscienza delle sue azioni. Sono intimamente persuaso che non avesse alcuna intenzione ostile nei miei confronti e nessuna premeditata intenzione criminale nel chiudere a chiave la porta della nostra camera. E che la causa dell'ubriachezza di M. Verlaine dipendesse esclusivamente dall'agitazione procuratagli dall'idea di incontrarsi con M.me Verlaine, sua moglie». Rimbaud, per sua ammissione, desisteva inoltre da ogni azione penale e civile, rinunciando a qualsiasi beneficio che avrebbe potuto venirgli dal procedimento in corso contro Verlaine.
Al giudice Serstevens però non bastava uno stato di sovreccitazione da alcol. Cercava una «ragione profonda». Voleva provare «scientificamente» ciò che un perverso e incrollabile positivismo gli faceva intuire. Il suo era più di un sospetto. Gli sarebbe stato impossibile paragonare un colpo di pistola a un eccesso passionale. Tutto doveva discendere da una devianza sociale, mai dalla tempesta di una forte intesa d'amore. Incaricò perciò due medici di «compiere un'accurata visita corporale su Verlaine, detenuto al carcere preventivo Amigo di Bruxelles, per constatare s'egli porti tracce d'abitudine pederastica». La mattina del 16 luglio 1873, due compìti i medici belgi, Semel e Vlenninky, varcarono i cancelli del carcere. Dopo aver prestato giuramento di totale riservatezza su quanto si apprestavano a fare, entrarono nella cella dove un esausto detenuto di nome Verlaine, nudo come un verme, fu esaminato con sapiente e microscopico furore per trovare sul suo corpo i segni dell'abominio. Il verbale della ricognizione si trova oggi - dodicesimo allegato - nel corposo dossier. «Il pene è corto e poco voluminoso, soprattutto il glande è piccolo... L'ano si lascia dilatare... con un moderato allargamento delle natiche». Da questi «segni», comprese le misurazioni in pollici dell'intimo più intimo, i medici dedussero «che Paul Verlaine, di professione letterato, porta sulla sua persona tracce abitudinarie di pederastia attiva e passiva... che fanno sospettare delle consuetudini inveterate e antiche, e delle pratiche più o meno recenti». Il procedimento giudiziario seguì il suo corso. Verlaine fu condannato a due anni di carcere da scontarsi nel carcere di Mons e al pagamento delle spese. Tra queste anche la parcella della visita corporale: 34 franchi belgi.

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