“Un eroe dei nostri tempi, signori miei cari, è proprio un ritratto, ma non di una persona: è un ritratto dei vizi di tutta la nostra generazione nel pieno del loro sviluppo…».
Così Michail Lermontov descriveva Pecorin, il protagonista di Un eroe dei nostri tempi, romanzo che a detta di Nicola I zar di tutte le Russie non poteva che rovinare i costumi con il suo indagare il male. Eroe post-byroniano, Pecorin è l’uomo del disincanto, nel quale la lucidità che guarda dietro il velo di passioni e illusioni è stata pagata con l’aridità del dandy che trova ormai il suo unico piacere nel vivere la vita come un gioco. E Un eroe dei nostri tempi è anche un esempio di prosa «moderna» in anticipo, semplice per calcolata sottrazione, trasparente perché attenta più alle cose che alle parole, asciutta fino a sfiorare la secchezza: e la nuova versione d’autore di Paolo Nori, che firma anche la postfazione, trova per Lermontov una cadenza rapida e lieve che rivela tutto l’esprit de finesse che sta sotto l’esprit de géométrie di questa prosa, riuscendo a rendere in un italiano essenziale sia il sottile uso della retorica che l’elusiva e lavorata semplicità di Lermontov. Certo, lo zar non aveva torto a preoccuparsi, perché con Lermontov, e già con l’Onegin di Puskin, cominciava quella grandiosa spettrografia del male cosciente di sé che il romanzo russo avrebbe messo in scena sotto molte maschere, fino alle incarnazioni estreme dei Demoni e dei Fratelli Karamazov.
Molto dopo Dostoevskij, quasi come corollario ai Demoni, compariva Il caso Tulaev di Victor Serge: la storia, raccontata dall’interno, dei processi di Mosca. Ma chi è Victor Serge? A pochissimi come a questo irriducibile spetterebbe, senza ironie alcuna, la qualifica di eroe dei nostri tempi. Serge fu perseguitato sotto tutti i governi e tutti i regimi: simpatizzò da giovane per i ribelli della banda Bonnot e fu condannato a cinque anni di isolamento, fu di nuovo incarcerato, sul finire del 1917, come disfattista e indesiderabile, diventò comunista, fu tra i capi della Terza internazionale, ma ne uscì disgustato, nell’Urss governata da Stalin diventò seguace di Trotzskij, fu arrestato di nuovo, scampò per miracolo ai processi staliniani e si rifugiò in Messico, dove morì sul sedile di un’automobile: con l’ultima accusa, per aver criticato Stalin, di essere «un socialdemocratico». E in questa vita-avventura, che raccontò in un libro straordinario, le Memorie di un rivoluzionario (Edizioni e/o), Serge trovò il tempo di descrivere con lucidità estrema cosa era diventata la Rivoluzione nelle mani di Stalin e della burocratizzazione comunista. Lo fece, con pochi altri, già negli anni ’20: pagandolo fino alla feccia, soffrendo soprattutto dell’occasione perduta, l’oscuramento del sogno fatto insieme a milioni di persone: cambiare il mondo.
Nel Caso Tulaev c’è un passaggio che spiega in modo straziante i troppi «casi Serge» e le loro conseguenze, sollevando sull’eliminazione degli oppositori da sinistra al Comunismo sovietico un interrogativo mai posto seriamente. Cosa accadrebbe, si chiede Serge nel Caso Tulaev, se le cinquanta persone che capiscono fino in fondo la teoria della relatività fossero eliminate in una notte? È semplice: la conoscenza scientifica arretrerebbe di secoli. Esattamente ciò che sarebbe accaduto al sapere rivoluzionario con i processi di Mosca: in poco tempo furono soppressi uomini che erano la memoria delle lotte di decenni, individui unici e non riproducibili, portatori di una conoscenza essenziale ai cambiamenti sociali: per Serge, con la loro morte l’idea di giustizia tornava alla balbuzie, e si instaurava l’esatto contrario della sognata liberazione: il totalitarismo. Profetico? Forse, e solo dopo, troppo tardi. Ma Serge non si arrese mai a nessun fatalistico «troppo tardi», e cercò tra infiniti ostacoli di capire e spiegare ciò che capiva, fino alla fine. E se la sua epoca, che è l’ombra dietro le nostre spalle, sembra più lontana di quella dei Faraoni è perché aveva ragione lui: l’ingiustizia è sempre pronta a seppellire nell’oblio chi pretende di smascherarla, è sempre mezzanotte nel secolo e sempre tocca ricominciare a capire e dire.
Da "l'Unità", 6 giugno 2005
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