Poco più di cinque anni fa, il 12 agosto 2006, sul TUTTOLIBRI de “La Stampa”, Giorgio Boatti dedicava la sua rubrica luoghi comuni alla camorra napoletana e a un libro, allora recente, di Isaia Sales (Le strade della violenza. Malviventi e bande di camorra a Napoli). Titolo dell’articolo era Il regno di camorra è merce contraffatta, argomento, per l’appunto, l’industria delle contraffazioni.
Quelli che arrivano per l'industria delle contraffazioni, del falso firmato, della pirateria musicale e degli audiovisivi, i giorni delle festività di Pasqua e Natale – “sono l'occasione in cui si fanno quadrare i conti e si spartiscono i proventi. Sotto l'attenta regìa dei clan di riferimento si tirano le fila di quel comprare e vendere e scambiare qualsiasi merce al di fuori della legge che - come spiega Isaia Sales nel suo saggio - da sempre ha costituito il «core business» della criminalità organizzata nel territorio metropolitano partenopeo”.
L’ipotesi di Sales era di una ininterrotta continuità tra i vecchi «magliari», che con numeri da gran teatro riuscivano a vendere a caro prezzo tessuti o capi d'abbigliamento presentati invariabilmente come occasioni irripetibili, e i ritmi serrati e innovativi degli attuali «broker della contraffazione». La «globalizzazione napoletana» partiva dal vicolo, dal laboratorio nello scantinato, dalle imprese in nero, innervando sinergie con altri settori «commerciali» delle attività camorristiche, quali il contrabbando e lo spaccio, le estorsioni e la truffa.
“Nella sua amplissima e documentata ricostruzione – scrive Boatti - l'autore illumina le radici trascorse, le modalità presenti e gli scenari futuri di una realtà che puntigliosamente definisce, al plurale, le «camorre» («esistono bande di camorristi, ma non esiste la camorra: per camorra dobbiamo intendere principalmente l'attività che svolgono i camorristi»). E, sempre a proposito del business delle contraffazioni, che rappresenta una delle attività più lucrose dei camorristi, spiega come vi transiti di tutto: dai Rolex di ultimissimo modello ai trapani falsi all'abbigliamento supergriffato”.
E’ portato ad esempio Ciruzzo O' Milionario - capoclan, responsabile di una resa dei conti, durante una delle «guerre di camorra» in cui vennero eliminate una cinquantina di persone – il quale, una volta, acquistò in un solo colpo ben 120 mila macchine fotografiche, e ne inondò l'intera Europa. La filiera del finto lusso è ricca di figure professionali che i «broker della contraffazione» utilizzano a seconda delle necessità e degli affari in corso: piccoli artigiani che lavorano in nero e lavoratori a domicilio, fabbricanti «double-face», in bilico tra legalità e illegalità, e importatori. E poi spedizionieri, informatici e contabili, tipografi e grossisti, per arrivare alle decine di migliaia di venditori finali, in buona parte cittadini extracomunitari, assoldati per miserabili percentuali sulle vendite, e incaricati di veicolare i prodotti taroccati sino all'acquirente finale.
Le cifre fornite Sales sulle attività di queste filiere del falso sono da capogiro. Per uno dei gruppi dominanti nelle contraffazioni, l'Alleanza di Secondigliano, «aggiungendo la vendita di trapani e di altri prodotti falsi, il guadagno si può aggirare intorno ai 90 milioni di euro al mese per ogni clan». Viene ricordato altresì come nella pirateria musicale e degli audiovisivi l'Italia si ponga al quinto posto nelle classifiche internazionali, con livelli di penetrazione dei prodotti illegali sul mercato ufficiale valutati attorno al 25 per cento. Altrettanto rilevanti sono le sovrapposizioni tra un settore e l'altro che consentono, a chi tira le fila del tutto, di utilizzare le stesse strutture, a volte le stesse persone, per attività assai diverse: ad esempio i prodotti a marchio falsificato fabbricati all'estero giungono in Italia attraverso gli stessi canali del contrabbando di sigarette. E gli scanner che riproducono le copertine di cd contraffatti sfornano anche nuovi documenti di proprietà per i veicoli rubati e da collocare su mercati esteri.
Sales affronta il fenomeno camorristico con uno sguardo non solo retrospettivo ma anche comparativo. Illuminante è il raffronto tra due criminalità organizzate di rilevantissimo peso nel Mediterraneo, la camorristica e la marsigliese, apparentemente simili per tradizione e collocazione, che hanno avuto nel corso del tempo, evolvendo, impatti diversi sui destini delle città.
La tesi è che il prezzo che una civilissima città quale Napoli ha pagato, e continua a pagare, al modello camorristico, è determinato da condizioni sociali e storiche evidenti, tra le quali spicca il mancato riassorbimento dei ceti sottoproletari di massa nelle modernizzazioni che hanno caratterizzato, in più occasioni, anche il nostro Paese. Questa specificità «napoletana» ha consentito alla camorra quella «lunga durata» che l'assimila a pochissime altre presenze criminali operanti nel mondo (la yakuza giapponese, le triadi cinesi, la mafia siciliana, la 'ndrangheta).
Come scrive Sales: «L'insuccesso di Napoli come metropoli moderna nasce dal continuo formarsi, lungo tutte le modernizzazioni che si sono susseguite, di sacche sociali irriducibili all'integrazione». E su queste sacche la camorra ha dispiegato, con successo, le sue strategie, adattandole al mutare dei tempi. Indicativo è quanto accadde l'indomani dell'eroica ribellione partenopea ai nazisti e alla conseguente liberazione di Napoli: tutta l'immensa filiera dei borsaneristi, con l'arrivo degli alleati, si mobilitò, sotto la regìa dei clan, per ritagliarsi la propria parte nell'enorme disponibilità di merci - un vero e proprio «shock consumistico» - approdate con le armate anglo-americane. «Napoli - scrive Sales - era diventata un unico grande mercato dove legale e illegale si confondevano. Tutto era lecito, tutto era merce, tutto rappresentava un'occasione». Era come se la metropoli partenopea, riottosa alla modernità, paradossalmente ne anticipasse i tratti conclusivi, di un mondo che tende a farsi un unico mercato totalizzante.
La domanda che mi sono fatto leggendo - cinque anni dopo la recensione - che ho sopra riassunto è “regge questo modello interpretativo?” e cioè “continua ad essere la produzione e la messa in commercio del falso, del contrabbandato, del proibito il cuore pulsante della camorra (anzi delle camorre) e la fonte della sua egemonia su un pezzo di società?”. Non ha cambiato nulla di sostanziale la pervasività dei cinesi, prima, e la crisi economica e finanziaria dopo? A naso mi pare che questo insieme assai complesso di attività, flessibilissimo e a rete, abbia enormi capacità di adattamento alle nuove situazioni, ma cerco conferme. (S.L.L.)
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